Il tormentato percorso di Ottone Rosai

da fascista a partigiano

Combattente nella guerra ’15-’18 aderì al movimento fascista da cui si discostò dopo l’assassinio di Matteotti fino a partecipare alla Resistenza -  Le vicende sconosciute della vita del grande pittore in un libro giornalista Nicola Coccia

 

 

Ottone Rosai durante la guerra 1915-18

 

di Mario Talli

 

 

    Che il famoso pittore Ottone Rosai fosse stato fascista in gioventù si sapeva. Non  altrettanto noto era il percorso che aveva compiuto all'incontrario, discostandosi sempre più dal fascismo e sposando di fatto la causa di chi ad esso si opponeva, fino a dare rifugio nella sua casa ad alcuni capi partigiani, primo fra tutti Bruno Fanciullacci (foto a sinistra), figura di primo piano e martire della resistenza fiorentina. Le meticolose ricerche di un giornalista della “Nazione” di Firenze, Nicola Coccia, hanno permesso di approdare ad una chiarificazione definitiva in proposito. Finora si era preferito lasciar credere che il pittore fiorentino avesse cambiato casacca solo dopo l'avvenuta caduta del fascismo per guadagnarsi la simpatia di chi gli era succeduto al potere; Insomma, una scelta compiuta in ossequio al più bieco opportunismo.  

   Effettivamente, come ha documentato l'autore nel libro “Strage al Masso delle Fate”, edizioni ETS, Ottone Rosai, valoroso combattente nella guerra '15-'18, fu tra i primi ad aderire al fascismo nascente, sbocco abbastanza frequente per chi, specie tra i giovani, era animato da sentimenti patriottici che Mussolini avrebbe ben presto  strumentalmente deformato secondo un'ottica nazionalistica. Nel 1915, a vent'anni, Rosai  partì volontario per la guerra, partecipò a diverse azioni ardimentose e riportò alcune ferite. Nel frattempo aveva già cominciato a dipingere. La prima mostra, esclusivamente di incisioni, la tenne nel 1911 a Pistoia. La seconda, quando aveva 18  anni, fu allestita invece a Firenze. Quella fu anche l'occasione che gli permise di conoscere, oltre a Giovanni Papini, alcuni artisti futuristi, scrittori o pittori come lui, che esponevano le loro opere nella medesima strada: Marinetti, Palazzeschi, Boccioni, Carrà, Soffici.  

     Con alcuni di loro e con altri che nel frattempo si erano aggiunti, si ritrovò a  guerra finita. A Firenze Rosai e Marinetti, insieme ad alcuni altri, fondarono il primo fascio futurista che fu chiamato La Nuova Italia. “Fascio, secondo lo storico Roberto Cantagalli, era un termine in gran voga allora ma anche prima (si ricordino i Fasci siciliani) e non aveva nulla a che vedere col fascismo: significava semplicemente Unione”. Tra il '18 e il '19 Rosai si incontrò a Firenze con Mussolini il quale, nel frattempo, aveva fondato anche lui un movimento denominato “fasci di combattimento” che nel novembre del 1921 avrebbe assunto le caratteristiche di un vero e proprio partito col nome definitivo e tristemente noto di Partito nazionale fascista.

La sdede del quotidiasno fiorentino Giornale del  Mattino sulla cui facciata Fosai dipinse un tabnernacolo (foto sotto)

        Il fascio futurista di Rosai e soci rimase in vita solo pochi mesi. Nel dicembre del '22, un mese circa dopo la Marcia su Roma (alla quale non aveva partecipato), il pittore fiorentino in un articolo apparso su Italia Nostra, giornale della locale federazione fascista, raccontava le vicende del suo primo fascio ma annunciava al tempo stesso il proprio ritiro dalla militanza attiva. Un distacco che aumenterà col passare del tempo e che sarà segnato da un episodio che accadde di lì a poco. Rosai aveva fatto amicizia con un calzolaio comunista dal forte temperamento che esercitava vicino al suo studio: Mario Garuglieri. Un giorno tre fascisti armati di bastone fecero irruzione nella sua bottega. Garuglieri e il suo aiutante Mario Corti reagirono a colpi di trincetto. Uno dei tre, ferito gravemente, morì il giorno successivo. I i due calzolai furono arrestati e qualche tempo dopo, era l'anno 1923, processati, circondati da un pubblico di quasi tutti fascisti che inveiva contro di essi. Ottone Rosai fu l'unico testimone in loro difesa. “Al termine del processo Garuglieri  presso la Corte di Assise di Firenze, ricorda lui stesso qualche tempo dopo,  passai tra due ali di fascisti tamburiniani, i quali al mio passaggio nell'aula mi minacciarono di morte se avessi parlato.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              Infatti potei parlare poco non per mia colpa, bensì per l'ingiuzione del giudice che mi impose di andarmene dopo le prime poche parole con la minaccia di mettermi nella gabbia con l'accusato. Poche sere dopo al bar di piazza Strozzi fui bastonato da un gruppo di fascisti capitanati dal Tamburini...”

     Ma fu l'omicidio Matteotti (foto a sinistra)  a sancire il distacco definitivo di Rosai dal fascismo. In quei due mesi che trascorsero dal sequestro del deputato socialista fino al ritrovamento del suo cadavere nel bosco della Quartarella, venticinque chilometri distante da Roma, il pittore, come scrive Giuseppe Nicoletti, autore di un saggio su Rosai scrittore, si accostò all'associazione antifascista Italia Libera, un movimento clandestino di ex combattenti di ispirazione repubblicana e democratica diretto, tra gli altri, da Ernesto Rossi e Nello Traquandi. Non solo, insieme a loro prese parte anche a due azioni di propaganda antifascista. Sarà proprio Ernesto Rossi, scrive Coccia nel suo libro, a  raccontare uno dei due episodi sul Non Mollare, il giornale antifascista che aveva fondato a Firenze insieme ai fratelli Rosselli (foto a destra: Carlo e Nello Rosselli)  e a Gaetano Salvemini. “Si associò a noi Ottone Rosai, pittore. Era stato squadrista ma dopo l'assassinio di Matteotti aveva avuto una crisi di coscienza e se n'era venuto con noi. Non faceva parte di Italia Libera, ma funzionava da franco tiratore in caso di emergenza. Era un fegataccio e aveva due enormi pugni che sembravano fatti per abbattere buoi. Terminammo il nostro giro con la Bianchina sul Viale dei Colli. Era l'alba e nel Piazzale già si muovevano gli spazzini. Eravamo incerti se affiggere o no gli ultimi foglietti. Rosai saltò dalla macchina col pentolino. Male non fare, paura non avere, disse forte. Si arrampicò sul piedistallo dell'imperturbabile David e gli incollò i manifestini proprio sotto i piedi”.

    D'altronde, basta un esame anche superficiale dell'arte di Rosai, per capire che non poteva esserci alcun rapporto tra la sua pittura da qualcuno giustamente definita   “tormentata e dolente, che ha spesso protagonisti umili e pacifici popolani” e l'arte declamatoria dannunziana, quella esibizionista dei futuristi e tantomeno quella banalmente propagandistica in auge durante il ventennio. In ragione di tutto ciò, a parte le esaltazioni giovanili,  Rosai non poteva che essere antifascista.

      Questo contrasto, questa antinomia assoluta e inconciliabile fu messa in risalto dallo scrittore Romano Bilenchi, grande amico di Rosai e come lui reduce da irrazionali infatuazioni giovanili. “A poco a poco mi fu sempre più chiaro – ha scritto  nel suo libro di memorie che ha per titolo “Amici” e per sottotitolo “Vitttorini, Rosai e altri incontri” - come l'opera di Ottone si poneva come uno dei momenti decisivi della pittura italiana. Essa significava un richiamo alla vita penetrando in quel mondo reale che le accademie e i novecentismi avevano negato...Rosai cercava di aprirsi alla realtà umana e in quegli anni egli costituiva l'unica alternativa alla divisione fra arte e vita che il fascismo aveva operato e andava sempre più approfondendo”.

      A questo punto il lettore giustamente si chiederà che relazione ci possa essere tra il titolo del libro menzionato all'inizio e Ottone Rosai, la sua vita e la sua arte. Domanda più che legittima a cui un abbozzo di risposta è possibile trovarla se alla citazione  del titolo  “Strage al Masso delle Fate” si aggiunge anche la menzione del  sottotitolo  che l'accompagna: “Ottone Rosai, Bogardo Buricchi ed Enzo Faraoni dal 1933 alla Liberazione di Firenze.” 

     Il fatto è che Rosai durante gli anni Trenta del Novecento, anni inquieti per alcune sue vicende familiari e i travagli della continua ricerca artistica, entrò in contatto con alcuni giovani di Carmignano, località non lontana da Prato, tutti quanti impegnati in attività antifasciste. Il tramite fu Enzo Faraoni, anche lui giovanissimo, il quale, oltre ad essere impegnato nell'antifascismo nutriva un grande trasporto per la pittura che dapprima cerco di ravvivare e indirizzare avvicinando Lorenzo Viani (a sinistra) a Viareggio  e, appunto, Ottone Rosai a Firenze, e poi, ancora giovanissimo, frequentando L'Istituto d'Arte fiorentino. Ed in effetti Faraoni divenne un artista, pittore ed incisore, con una discreta fama. Col passare degli anni, dopo la guerra, partecipò a mostre e rassegne nazionali e internazionali, si aggiudicò diversi premi e per un certo periodo fu assistente di Rosai quando quest'ultimo fu assunto come  insegnante presso l'Accademia di Belle Arti.

       I giovani di cui sopra, la notte del 10 giugno 1944, un sabato, fecero esplodere alcune cariche di tritolo sotto alcuni vagoni di un treno che trasportava munizioni                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   e che era in attesa su un binario morto presso la stazione di Carmignano in località, appunto, conosciuta col nome di Masso delle Fate o anche Masso della Golfolina.  Verso la mezzanotte di  quel giorno, racconta Coccia nel suo libro, otto uomini  si mossero in due gruppi. Il primo, di cinque persone, era agli ordini di un poeta, Bogardo Buricchi. L'altro era guidato dal pittore Enzo Faraoni. Entrambi i gruppi avevano un quantitativo di esplosivo che collocarono sotto alcuni vagoni.  Compiuta l'impresa imboccarono subito la via della fuga. Ma non  tutti riuscirono a   mettersi in salvo.  “Dopo l'esplosione della prima carrozza -  scrive Coccia – il fuoco attaccò  la seconda e poi la terza. E fu l'inferno. I vagoni saltarono in aria uno dopo l'altro squarciando il buio e il silenzio della notte. “L'esplosione sembrava non finisse mai – ha raccontato poi a sua volta Enzo Faraoni – Sentivo il cielo friggere. Vedevo la cenere incendiata volare per l'aia. I carboni schizzavano come proiettili. E tutto intorno c'era un caldo insopportabile”.

     Bogardo Buricchi, suo fratello Alighiero e un altro giovane di nome Ario, gli ultimi tre della fila indiana, furono investiti in pieno dall'esplosione e i loro corpi non furono più ritrovati. Il più anziano del gruppo , Bruno Spinelli, padre di tre figli alla sua prima azione da partigiano, fu investito dallo spostamento d'aria e scaraventato contro le rocce. Morì alcuni giorni dopo.

Il Galileo