Il gipeto sulle Alpi

Una bella realtà grazie al progetto internazionale di reintroduzione

 

 

di Giuditta Bricchi

 

 

Come la vita del gipeti non conosce frontiere, così il progetto della sua reintroduzione coinvolge tutti i Paesi alpini. In passato questo splendido rapace era diffuso su tutta la Catena alpina, ma poi scomparve tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento. Oggi  tra Austria, Svizzera, Italia e Francia,  ne volano  circa 150 esemplari. Per poterne studiare le migrazioni, alcuni esemplari sono dotati  di piccoli trasmettitori satellitari.

Perseguitato per ignoranza

 

La  scomparsa del gipeto barbuto  dall’arco alpino va  imputata principalmente all’ignoranza. Noto in passato anche come avvoltoio degli agnelli,  venne perseguitato con accanimento perché ritenuto un animale pericoloso. Con i suoi occhi di un intrigante color rosso  fuoco e con le sue grandi dimensioni, è stato protagonista di numerose credenze. A lungo è stato accusato di uccidere gli agnelli piombando loro addosso con repentine picchiate e di far precipitare camosci e stambecchi nei dirupi. Si raccontava addirittura che rapisse i bambini. Venne perseguitato con ogni mezzo ed in ogni modo giungendo anche all’istituzione di specifiche taglie per la sua uccisione. Oltre alla persecuzione, anche il collezionismo svolse un ruolo importante nel suo sterminio. In passato infatti erano molto diffuse le collezioni di uccelli imbalsamati. Diffuso in passato su tutta la Catena alpina, il gipeto   scomparve  tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento. L’ultimo abbattimento  di cui si ha notizia risale al 1913, in Valle d’Aosta. Solo nel 1939 con l’entrata in vigore del Testo Unico sulla Caccia, il gipeto – caso unico tra i rapaci – venne protetto integralmente, ma era ormai era troppo tardi, la scomparsa era già avvenuta.

 

 

Un grande rapace “spaccaossa”

 

 

 Il gipeto barbuto ( nome scientifico Gypaetus barbatus ) è una delle quattro grandi specie di avvoltoi in Europa ed è il più grande rapace europeo. L’attributo barbuto è dovuto al caratteristico ciuffo di penne nere sotto il becco, che simula la barba.   L’apertura alare può raggiungere i tre metri. Raggiunge l‘ altezza di un  metro  e il peso varia  tra  i cinque e i sei  chilogrammi. Può  vivere  45 anni. Il  piumaggio è grigio argentato e presenta una colorazione che passa dal marrone chiaro al ruggine, soprattutto nelle zone della testa, del collo e delle zampe. E’ riconoscibile per il lungo becco adunco e la potente coda lunga e cuneiforme.  Il gipeto, come gli altri avvoltoi, è un necrofago, si alimenta cioè di animali morti e delle loro carcasse che individua grazie alla  vista acutissima.  Si ciba  soprattutto di ossa, cioè di quanto rimane delle carcasse spolpate da altri. Il tessuto osseo è molto ricco sia di proteine che di grassi ( quasi come la carne fresca),  ma risulta immangiabile per gli altri avvoltoi. Le ossa di piccole dimensioni vengono ingerite direttamente, mentre quelle troppo lunghe vengono spezzate, facendole cadere da grandi altezze sulle rocce. Questa  sua “specializzazione”  gli è valsa il nomignolo di “spaccaossa”. Particolari adattamenti a questa dieta ossivora, caratteristica del gipeto, sono costituiti dalla grande apertura della bocca, dalla lingua a sgorbia, dall’esofago indurito e privo di gozzo e dallo stomaco - dotato di succhi gastrici particolarmente acidi - in grado di “sciogliere” totalmente il tessuto osseo.

 

Il progetto internazionale di reintroduzione

 

 

 

Nel 1978 un gruppo di ricercatori e ambientalisti  di diverse istituzioni europee, come l’Università di Vienna, la Società Zoologica di Francoforte, il WWF Austria , la International Union for Conservation of Nature ( IUCN ), si ritrovarono a Morges, in Svizzera, per gettare le basi del  Progetto Internazionale di Reintroduzione del Gipeto sulle Alpi. Il progetto,  estremamente complesso ed articolato, ancora in corso, fu reso operativo  con il sostegno finanziario del WWF Internazionale, della IUCN, della Società zoologica di Francoforte. Successivamente  fu gestito dalla Fondazione per la Conservazione del Gipeto (FCBV), ora confluita nella Fondazione per la Conservazione degli Avvoltoi (VCF).  L'obiettivo era quello di ricostituire una popolazione naturale in grado di auto-mantenersi. Il progetto si articola in quattro parti: allevamento, messa in libertà, monitoraggio, sensibilizzazione ed educazione ambientale. Intorno agli anni '90 i responsabili dei parchi alpini europei, come il Parco Nazionale francese del Mercantour, il Parco Nazionale Svizzero, il Parco Naturale italiano delle Alpi Marittime e il Parco Nazionale dello Stelvio iniziarono  la campagna di ripopolamento. 

 

I primi esemplari

 

 

Non potendo far riferimento a soggetti selvatici, venne deciso di utilizzare come riproduttori gli esemplari presenti in cattività nei vari Zoo europei, liberando poi in natura i giovani nati. La tecnica  utilizzata per le liberazioni fu quella dell’hacking, che prevede la liberazione dei giovani prossimi all’involo in falsi nidi ed un loro breve sostentamento fino  all’emancipazione. La prima liberazione ebbe luogo in Austria, nella valle di Rauris - Parco nazionale degli Alti Tauri - il 25 maggio 1986. Negli anni successivi vennero attivati altri tre siti di liberazione: nel 1987 in Francia, Alta Savoia; nel 1991 in Svizzera,  in Engadina nel Parco Nazionale Svizzero ed infine nel 1993 venne attivato il sito italo-francese Mercantour – Alpi Marittime. Il primo rilascio nel Parco Nazionale dello Stelvio risale al 2000. Da allora molte cose sono cambiate.

 

Un  successo a livello mondiale

 

Ora sono circa 150 i soggetti in vita sulle Alpi e 19 le coppie riproduttive  formatesi in vari settori alpini. Un quadro decisamente confortante, ma ancora non del tutto rassicurante. Siamo ancora lontani dal raggiungimento di una popolazione alpina stabile e ben distribuita sulle Alpi, in grado di automantenersi.  Il ritorno del gipeto sulle Alpi è il frutto di uno dei più riusciti interventi di reintroduzione mai attuati a livello mondiale. Il programma, nonostante molte difficoltà, si può ritenere in gran parte realizzato ed è quindi possibile constatarne la grande importanza. A trent’ anni dai primi passi, si può affermare che la popolazione alpina di gipeti ha raggiunto la capacità di autosostenersi e quindi c’è la possibilità di ridurre il numero di nuovi rilasci. L’ attuale sviluppo positivo del progetto di reinserimento non deve però far dimenticare il fatto che i rapaci hanno  tempi di riproduzione molto lunghi. Bisogna inoltre continuare a fare tutti gli sforzi possibili, affinché la soglia dei rischi riconducibili all’ uomo (avvelenamenti, bracconaggio e così via) venga mantenuta a livelli bassi.  

 

Collaborazioni internazionali per un grande viaggiatore

 

Nei  loro primi anni di vita i gipeti coprono lunghe distanze (fino a 700 km al giorno), prima di divenire sedentari  e  stabilirsi in un territorio per  iniziare a riprodursi. Durante queste migrazioni, in pochi giorni, possono sorvolare l’intero arco alpino. Le informazioni su queste  scorribande erano molto lacunose, pur essendo  assai  importanti.  Esse rappresentano  il punto di partenza per una protezione efficace di questi magnifici rapaci. Ora istituzioni austriache, francesi, italiane, tedesche e svizzere collaborano al progetto “Gipeto dove vai?”, coordinato dalla Fondazione Pro Gipeto, per studiare,  per la prima volta e con metodi scientifici , le migrazioni dei giovani gipeti.

 

Gipeto dove vai?

 

Il progetto “Gipeto dove vai?” utilizza il sistema di telemetria satellitare Argos. Il metodo viene impiegato già da alcuni anni con successo per studiare le specie molto mobili e acquisire nuove informazioni sul loro utilizzo dello spazio vitale.  I gipeti barbuti in giovane età vengono muniti di piccoli trasmettitori satellitari, al fine di poterne seguire gli spostamenti.  Essi vengono anche  contrassegnati  in modo visibile, schiarendo determinate piume della coda e delle ali. Così facendo è possibile riconoscerli ed osservarli bene. I gipeti vengono localizzati con l’aiuto di diversi satelliti che sorvolano la terra a circa 850 km di altezza lungo l’asse Nord-Sud.  L’applicazione delle emittenti satellitari è stata sperimentata su alcuni animali tenuti in cattività presso il Parco naturale e faunistico di Goldau ( Svizzera ).  Gli esperimenti hanno dimostrato che le emittenti vengono tollerate bene dai gipeti, che non mostrano praticamente nessuna reazione alla loro presenza. Vengono utilizzati due sistemi di marcatura: l’emittente viene fissata su una piuma caudale oppure viene legata  attorno alla vita dell’uccello con un nastro elastico,  fissato come un’imbracatura da arrampicata.

 

Il gipeto nel Parco Nazionale dello Stelvio

 

 

Il Lago di Livigno, la Valle del Braulio  e la Val Zebrù sono certamente i luoghi in cui è più facile osservare il gipeto. In val Zebrù, nel cuore del Parco Nazionale dello Stelvio, si snoda un itinerario alla portata di tutti: escursionisti  e bikers possono percorrere senza particolari difficoltà i 12 km di una delle più selvagge e affascinanti vallate del gruppo Ortles-Cevedale (tra le montagne più alte d’Italia). Il torrente Zebrù attraversa la valle, fiancheggiata da rigogliose pinete e sovrastata da picchi di roccia che forniscono l’habitat ideale al gipeto. Camminando in silenzio e rispettando la natura circostante,  è possibile avere la ventura di osservare il volo maestoso di questi rapaci.

Il Galileo