Tre preti “contro”

nella Firenze degli anni 50 e 60

 

Don Lorenzo Milani, priore di Barbiana

Don Enzo Mazzi, parroco dell’Isolotto

Padre Ernesto Balducci, sottile filosofo

 

di Mario Talli

 

 

        Da quando è arrivato il nuovo Papa di tanto in tanto, senza averne magari neppure l'intenzione, come se fuoriuscisse dal cuore piuttosto che dal cervello, mi trovo a chiedermi che tipo di accoglienza avrebbero avuto nella Chiesa, se all'epoca ci fosse stato lui, tre preti dei quali per un verso o per l'altro si è parlato molto (e per fortuna si continua a farlo): don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci, Enzo Mazzi.

        Per non fare torto a nessuno li cito nell'ordine in cui sono passati a miglior vita, come si usa dire e come forse viene anche più facile dire dal momento che si tratta di tre sacerdoti. Mi permetto anche di trattare l'argomento usando la prima persona singolare, poiché i tre preti di cui sopra li ho conosciuti di persona e uno, padre Balducci , l'ho frequentato piuttosto spesso. Reputo anche opportuno specificare che tutti i personaggi in questione sono fiorentini o toscani e a Firenze si sono formati e hanno dimorato durante la maggior parte della loro esistenza. Il riferimento al luogo di nascita e di residenza non è di poco conto, perché essi sono diventati quello che furono e continuano ad essere certamente in ragione delle loro distinte personalità,  ma è da presumere che il rigoglioso ambiente cattolico fiorentino dove fiorì la loro vocazione sacerdotale (mi limito a due nomi: il cardinale arcivescovo Elia Dalla Costa e il professor Giorgio La Pira, nella foto sopra) li abbia in qualche modo accompagnati nella ricerca del senso da dare al rispettivo futuro impegno ecclesiale.

      Come molti sanno, i tre protagonisti di questo racconto hanno un'altra cosa in comune, oltre alla fiorentinità. Tutti quanti hanno dovuto subire severi procedimenti disciplinari, fino a quello forse più grave di tutti, la sospensione da parroco a carico di Enzo Mazzi (foto a destra). E tuttavia, benché attenti tutti e tre ad interpretare nel modo più autentico possibile, anche nei suoi significati terreni, il messaggio  cristiano, erano delle persone assai dissimili tra loro, com'è naturale che sia, e lo erano soprattutto   nei rapporti con l'istituzione ecclesiastica e con il mondo, che era poi alla fin fine il modo più persuasivo, in primo luogo per sé medesimi, di dare concretezza alla rispettiva professione di fede.

      Senza con questo voler sottintendere qualsiasi altro tipo di giudizio, secondo me il più agevole da analizzare è don Mazzi. E dico questo per due differenti ragioni, una di tempo e una di natura più personale. S'intende che anche lui era in qualche modo predestinato a diventare il prete che è stato, ma il suo “caso” nacque e si diffuse in una circostanza ben precisa e come diretta  conseguenza di essa: l'occupazione, nel settembre del 1968, del Duomo di Parma ad opera di una quarantina di giovani che reclamavano una Chiesa più vicina alla povera gente, meno compromessa con il potere politico ed economico e nella quale i laici avessero più voce in capitolo. Mazzi, alle prese nella sua parrocchia con una realtà economica e sociale particolarmente disagiata (la parrocchia è quella dell'Isolotto, quartiere sorto a metà degli anni '50 con la costruzione di un gruppo di case di tipo economico dove andò ad abitare una popolazione eterogenea proveniente dai quartieri popolari di San Frediano e Santa Croce,  di profughi istriani e greci e di immigrati dal Sud)  manifestò con la parola e i fatti la propria solidarietà e quella della maggior parte dei suoi parrocchiani con gli occupanti parmensi. Il parroco dell'Isolotto intercettò quell'episodio, uno dei tanti del movimentismo sessantottino, vi salì sopra e sfidò intrepido insieme al suo popolo i fulmini dell'allora arcivescovo di Firenze, cardinale Ermenegildo Florit, (foto a sinistra) tradizionalista e conservatore e perciò del tutto impreparato a gestire una situazione dirompente come quella che si era determinata nella parrocchia periferica, nella quale già da diversi anni Mazzi aveva seminato il suo verbo fatto di messe e altri sacramenti ma anche di un doposcuola, un centro sociale, una biblioteca, alcuni asili nido e così via.  

      Per la seconda ragione, quella relativa all'uomo Mazzi, perciò più difficoltosa  da leggere e decifrare, mi affido alle impressioni che ne trassi in quei momenti convulsi (momenti che si protrassero per mesi e anni e che in pratica non sono mai del tutto tramontati), durante i quali il parroco dell'Isolotto mi apparve come un uomo che aveva consapevolmente scelto di commisurare la  propria missione sacerdotale ad una lettura semplice, direi quasi elementare, del vangelo di Cristo, compreso l'impegno oneroso che discende dalla sua accettazione.            

A questa impostazione “ideologica” (mi si passi il termine), don Mazzi abbinò altrettanta intransigenza nella contrapposizione  alle sempre più severe ingiunzioni dell'arcivescovo, nell'uso degli spazi parrocchiali per le riunioni e le assemblee, nelle modalità della protesta e nelle sue stesse ritualità. Secondo canoni, anche qui, in voga in quegli anni segnati dalla contestazione tout court e da quella giovanile in particolare.

    Il risultato del duello all'ultimo sangue tra la Curia arcivescovile e la Comunità dell'Isolotto non poteva che concludersi con una pace imposta dall'alto e dunque, a ben vedere, senza vinti né vincitori. Infatti anche i tentativi operati nel corso del tempo da più parti, compresi ambienti curiali   adusi alle arti diplomatiche o più disponibili e aperti come i successivi arcivescovi, i cardinali Giovanni Benelli e Silvano Piovanelli, non produssero risultati apprezzabili e don Mazzi restò per sempre inchiodato alla sua croce: la rimozione da parroco. Neppure un tentativo di conciliazione in extremis di padre Balducci ebbe risultati migliori e non saprei dire, fra le due indisponibilità, quale lo abbia amareggiato di più. 

     Nella fase più cruenta dello scontro che seguii come cronista, volendo dare una rappresentazione il più possibile completa e veritiera della situazione, ricordo che provai a immedesimarmi nel ruolo  dell'arcivescovo, secondo tradizione autoritario, rigido e formalista, alle prese con quel popolo che della semplicità e del rifiuto delle convenzioni faceva un vanto e una professione di fede,  di quel popolo che lo contestava con una durezza eguale alla sua e compresi che difficilmente tra le due parti in conflitto sarebbe arrivata la pace o almeno l'armistizio.

     Mettendomi nei panni del porporato (che conferiscono a chi li indossa la solennità  regale di principe della chiesa,  ancor più accentuata in Ermenegildo Florit, a causa della sua  massiccia figura), abituato  al comando e improvvisamente spossessato di una “sua” chiesa ad opera degli occupanti, capii ancora meglio che l'impatto psicologico non deve essere stato leggero. D'accordo: la  chiesa non era di proprietà del cardinale, apparteneva a tutto il popolo, ma egli ne era quanto meno il massimo rappresentante in loco e al tempo stesso il custode riconosciuto. Insomma, la situazione che si era determinata non era semplice. A tutto ciò aggiungiamoci l'effetto anche visivamente contundente di quella massa di persone che con mezzi del tutto inconsueti e invasivi pretendeva di imporre le sue condizioni ad un'autorità, quale quella ecclesiastica, abituata da secoli a muoversi incontestata con circospezione tra il chiaroscuro delle candele, l'alito freddo delle pietre e dei marmi e il silenzio quasi palpabile che avvolge le navate.  

 

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      Tutt'altra storia e personalità quella di don Lorenzo Milani (foto in basso a destra), anche se con Mazzi aveva in comune l'opzione totale per il modello evangelico e le iniziative, insieme all'educazione spirituale, volte all'emancipazione culturale, civile e politica delle persone, in particolare di quelle appartenenti alle classi popolari e perciò potenzialmente meno attrezzate.

        Don Milani, benché provenga da una famiglia borghese - o forse proprio per questo - verso mentalità e consuetudini della borghesia non è affatto tenero. Soprattutto  non ha complessi di sorta e perciò non ritiene di dover far sue modalità di esternazione delle proprie ragioni mediante azioni eccentriche e altisonanti per dimostrare di essere dalla parte dei lavoratori e dei poveri. Imponendosi di rispettare, probabilmente non senza un grande sforzo, il giuramento dell'obbedienza, non poteva abbandonarsi a gesti di rottura clamorosi. Il suo dissenso, quando c'era, era implicito e quando lo riteneva necessario lo rendeva esplicito esprimendolo soprattutto con le opere o mediante iniziative, anche risolute, su singole questioni che a suo giudizio avessero in qualche modo a che fare, sia pure in senso traslato,  con la dottrina e con la fede, come ad esempio la solidarietà verso gli obiettori di coscienza, espressa con una lunga, lucida e appassionata lettera ai cappellani militari che gli costò una condanna penale. 

     Come prete egli fece fin da subito una scelta personale di povertà. E nelle vertenze sindacali fu sempre dalla parte degli operai. Ad un confratello che lo rimproverava di dare “tutta la colpa ai padroni”, rispondeva che non poteva comportarsi come i giornali “indipendenti” che dicono di essere “oggettivi” senza tener conto “che tra il forte e il debole le parti non sono eguali e non si può distribuire i torti con salomonica indifferenza”.

    Don Milani non aveva in simpatia neppure i partiti politici ed in particolare i due più importanti, la Democrazia cristiana e il Pci. La DC non gli era simpatica perché già nella sua insegna diceva di essere ciò che in effetti a suo giudizio non era e cioè vicina al messaggio di Cristo e ai poveri (“...Non si poteva chiedere – scrisse a commento delle elezioni politiche del 1953 - che i non cattolici votassero D.C. per la speranza di ottenere giustizia sociale, cioè pane, casa, scuola, difesa dagli abusi padronali....Dei DC come governanti e legislatori i poveri avevano 7 anni di esperienza. Esperienza negativa in tutti i sensi...”; i comunisti li  vedeva di malocchio non in quanto tali ma piuttosto perché militanti del Pci, partito in qualche modo compromesso con il comunismo sovietico, non solo totalitario ma che aveva fatto dell'ateismo di Stato una bandiera. Proverbiale la sua schietta confidenza ad uno dei ragazzi della sua prima parrocchia - quella di San Donato, dove era viceparroco – che era iscritto al Partito comunista: sarò al tuo fianco fino a quando non avrai conquistato più giuste condizioni di vita, poi ti tradirò. (Nella foto a sinistra: la scuola di Barbiana)

     Per quel che può servire, a riprova di quanto sopra, citerò un episodio di cui sono stato involontario protagonista. Quando uscì “Esperienze pastorali”, il suo primo libro, lo lessi e rimasi folgorato. Tanto che tradussi quella mia fascinazione in una recensione entusiastica per “l'Unità”, giornale in cui allora lavoravo. Volendo qualche mese dopo un collega del settimanale del Pci “Vie Nuove” intervistare don Milani e sapendo di quella mia recensione ampiamente favorevole, pensò che un mio intervento avrebbe potuto spianargli la strada verso quel prete notoriamente dal carattere scorbutico e tutt'altro che incline a dialogare con i giornalisti. Don Lorenzo, già destinato all'esilio di Barbiana,  si trovava ancora a San Donato a mettere insieme le cose personali che avrebbe portato con sé. Quando arrivammo a destinazione, lo trovammo sulla porta dell'abitazione del parroco, la testa leggermente reclinata su una spalla, e gli dicemmo dell'intervista. Egli restò un momento in silenzio e poi sbottò: “Non dò interviste e tanto meno le dò a voi comunisti, non voglio essere strumentalizzato!” (nella foto sopra, a destra, Don Milani con i rargazzi di Barbiana)

 

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       Con padre Ernesto Balducci entriamo in un altro mondo, benché la spinta originaria sia pressappoco la stessa degli altri due sacerdoti: la simbiosi col Vangelo. Per gli studi, gli interessi, il profilo intellettuale, Balducci e Milani dovrebbero essere i più vicini. Invece lo sono stati solo in  parte. Il più attento alle intenzioni e alle opere dell'altro è stato senza alcun dubbio il primo: don Milani ha invece avuto verso il padre scolopio anche qualche incomprensione e spunto polemico. 

          E in effetti ci troviamo di fronte a due personalità profondamente diverse, nonostante   all'origine fossero  accomunate dall' afflato artistico: don Milani, prima di farsi prete andò a scuola di pittura, ma i risultati (probabilmente se ne accorse lui stesso per primo) furono piuttosto scarsi, come si è potuto vedere in una recente mostra fiorentina voluta da uno dei suoi ex ragazzi della scuola di Barbiana. Padre Balducci, laureatosi con una tesi su Fogazzaro,  aveva uno spiccato interesse per la  letteratura, come si può desumere facilmente da alcuni suoi bellissimi, intensi e poetici scritti sui luoghi  - Santa Fiora, il Monte Amiata - e le persone della sua infanzia.

                 Padre Balducci è affabile, propenso al dialogo e al confronto, anzi, uno straordinario e prodigo dialettico, quanto l'altro è spesso corrucciato e scorbutico: Barbiana, il luogo dell'esilio,  è diventata un po' il suo eremo, la sua isola da dove manda i  ragazzi della scuola popolare all'estero, ad imparare le lingue e alla scoperta del mondo. Lui resta lì, novello Robinson Crosuè, forse trattenuto anche dalla malattia. Quello è il suo mondo, il luogo dove spende tutto se stesso al servizio dei poveri e del Padreterno. Ma non ne resterà mai prigioniero, anche se è in quel pezzo di terra che vorrà essere sepolto.

          Per padre Balducci il padre minatore è un segno di distinzione. Le sue origini non le scorderà mai.*

 Quando decise di partire verso il Collegio degli Scolopi a Roma, il fabbro del paese gli raccomandò di “non farsi imbrogliare dai preti”. Quando, molti anni dopo, anche lui fu condannato  per aver difeso l'obiezione di coscienza,  il medesimo fabbro lo avvicinò, gli toccò una spalla  e sentenziò: “Ernesto, non ci sono riusciti.”  “A quelle parole – confesserà poi padre Balducci –  mi sentii toccato nel profondo come da una benedizione.”

           Non è qui il caso, per non allungare troppo il discorso, di insistere oltre sulla vita di padre Balducci e sulle sue opere e iniziative: le riviste che ha fondato e diretto, i numerosi libri che ha scritto, le conferenze e le ascoltatissime conversazioni radiofoniche... Il suo pensiero partiva da alcuni concetti semplici per poi spaziare verso temi universali. Fu ad esempio presago, in anticipo su molti altri pensatori, quando si occupò dell' “Uomo planetario”, ossia di ciò che oggi si definisce con la parola “globalizzazione”, anche se la sua prospettiva spaziava verso altri orizzonti.

              Non si può riassumere la totalità del pensiero di una qualsiasi persona in poche parole.  Perciò credo che soprattutto nel caso di padre Balducci non ci sia cosa migliore che affidarsi ad alcune tra le sue di parole. Io ho scelto queste, anche perché mi pare che si attaglino alla perfezione al momento che la Chiesa di Roma vive attualmente: “Chi resiste al mutamento di una istituzione, in realtà ne decreta la morte.”  Ed ancora: “La mia è una fuga immobile, non mi sposto di un capello dal mio asse evangelico.”            

         Arrivato alla conclusione, mi accorgo che alla domanda iniziale: se all'epoca ci fosse stato il Papa attuale eccetera eccetera, non si può rispondere; o almeno io non me la sento di rispondere, anche se un'idea ce l'ho. Tuttavia non posso fare a meno di dire che allora fui amaramente deluso, benché fossi consapevole che la gerarchia ecclesiastica si trovava perfettamente a proprio agio in compagnia del potere politico ed economico, delle sofferenze ingiuste imposte a   uomini straordinari (alludo in particolare a Ernesto Balducci e Lorenzo Milani) rei soltanto, una volta scelto di dedicarsi a Cristo, di voler essere coerentemente fedeli ai suoi insegnamenti. La condanna all'esilio che tutti e due subirono non fu comminata per motivi di dottrina o di chissà quale colpa verso la Chiesa, ma per ragioni esclusivamente politiche e fu voluta dalle forze conservatrici e reazionarie interne ed esterne alla curia vaticana.  

Piuttosto mi serve, quella domanda, per azzardare l'ipotesi un diverso itinerario per la Chiesa che proprio in questo scorcio di tempo potrebbe aprirsi: una Chiesa protesa più di quanto lo sia stata fino ad oggi, in attesa del giudizio del Dio dei credenti,  alla giustizia e alla pace sulla terra.

*Verso la metà degli anni 60, Padre Balducci intervenne in una trasmissione radiofonica in diretta. Il conduttore, anch’egli originario di Santa Fiora, lo salutò dicendo, sostanzialmente,  frasi come “abbiamo alle spalle le stesse radici e la stessa esperienza della miniera”. Al che Padre Balducci risposte: “Sì, solo che mio padre era un minatore che scendeva a centinaia di metri sotto terra, mentre il suo era il padrone della miniera” (N.d.R.)

Il Galileo