Un dibattito antico

Eutanasia sì o no?

E’ moralmente accettabile l’Eutanasia, la dolce morte?

 

 

 

di Magali Prunai

 

 Eutanasia, la dolce morte.  Dal greco “εὐθανασία”,  “εὖ” buona e “θάνατος” morte.

Eutanasia come diritto a morire, come diritto a richiedere di essere uccisi in casi estremi della vita, o meglio della “non vita” di alcune persone. Il tema in Italia è molto dibattuto e contrastante, tanto in giurisprudenza che in dottrina ma anche dall’opinione pubblica.

E’ giusto, è moralmente accettabile “uccidere” chi è gravemente malato, in coma irreversibile, chi non ha speranza di guarigione e passerà il resto della sua vita attaccato a una macchina per respirare, per nutrirsi, per bere? E’ da considerarsi vita, ad esempio l’alimentazione forzata, o è solo accanimento terapeutico?

In Italia esiste una norma del codice penale che disciplina proprio l’omicidio del consenziente, articolo 579, che prevede una pena leggermente inferiore rispetto alla classica figura di omicidio ma che classifica, comunque, questa particolare fattispecie sempre come un reato contro la persona. L’eutanasia può esulare questa disposizione?

Il primo a parlare di eutanasia è il filosofo inglese Francis Bacon, nel 1605, con il suo scritto “Of the Proficience and Advancement of Learning” in cui esorta i medici a non abbandonare i pazienti affetti da malattie incurabili, ma di aiutarli nel non soffrire. Il senso moderno del termine, invece, è stato coniato nel XIX secolo, quando prese piede la concezione di una pratica non riprovevole di “dolce morte”. Comunque rigiriamo la sua interpretazione il senso non cambia, sempre di “suicidio assistito” si tratta.

Il punto centrale, del quale si dibatte da anni, è la possibilità per il paziente di decidere di terminare o meno la propria vita. La questione non si pone per chi, anche se malato, è nel pieno uso delle proprie facoltà motorie: posso muovere autonomamente le mie braccia e le mie gambe, posso suicidarmi, se voglio, da solo con qualsiasi mezzo decida sia più opportuno. Il problema si pone per quei pazienti che non sono in grado di fare alcunché senza l’ausilio di altre persone ma nel pieno possesso delle facoltà intellettive e, soprattutto, nei confronti di chi non è neanche in grado di poter esprimere la propria volontà perché, ad esempio, è in coma. (Nell'immagine a sinistra: Il filosofo inglese Francis Bacon fu il primo ad occuparsi di eutanasia. Il quadro che lo ritrae è di Frans Pourbus)

Il problema, in Italia, è legato non solo a un’opinione pubblica completamente divisa a metà, ma anche al fatto che la nostra normativa in tema è ferma agli anni ’80, cioè quando le conoscenze tecnico-scientifiche erano nettamente inferiori rispetto ad oggi.

 

La disciplina, o meglio un’eventuale disciplina in materia, non può, comunque, prescindere dall’articolo 32 della Costituzione, che sancisce il diritto alla salute. La salute è un diritto sociale ed è vietato qualsiasi trattamento sanitario obbligatorio a meno che non sia disposto per legge (TSO, vaccinazioni per i bambini …). L’Assemblea Costituente si trovò davanti a un difficile problema, ovvero dover scegliere fra un diritto alla salute e un diritto a scegliere le proprie cure. La libertà di scelta può prevalere sulla vita o la vita deve prevalere sulla libertà di scelta? Giuridicamente la volontà mantiene sempre il suo ruolo primario, qualsiasi scelta deve essere fatta autonomamente e conformemente alla propria coscienza. Entro, ovviamente, a dei limiti prestabiliti dalla legge (io non posso avere la libertà di alzarmi una mattina, prendere una pistola e uccidere la prima persona che incontro perché in questo caso esuleremmo il campo della libertà di azione per rientrare in quello della tutela della vita altrui). Ma la Costituzione, dall’articolo 13 in poi, si occupa di tutelare l’individuo e i suoi diritti fondamentali non tanto dalle indebite ingerenze di altri singoli individui ma da quelle dello Stato.

Allora ci si pone un altro problema. Parliamo ad esempio della cosiddetta “eutanasia passiva”, ovvero quella caratterizzata da un comportamento di  “non fare”. Staccare una flebo, spegnere un respiratore è un’azione o un’omissione? Secondo la dottrina, in termini generali, qualsiasi interruzione di terapia è un’omissione e non un’azione. Non è staccare la flebo che porterà alla morte, ma il fatto che la flebo non ci sarà più. Per azione, infatti, si intende un’iniezione letale che di fatto provocherà la morte di un determinato soggetto.

Per quanto riguarda il consenziente, comunque, basta solo dire che nel caso dell’omissione un qualsiasi soggetto è libero di rifiutare una cura. Nel caso dell’azione, invece, se commessa da altri a danno di terzi si dovrà valutare il grado di coinvolgimento del paziente: istigazione a uccidere, omicidio del consenziente.

Il problema vero e proprio si pone, come già detto, quando il malato non è consenziente. Chi decide per lui? Chi può testimoniare quale sia la sua reale volontà? La legge su questo aspetto tace. Sono, però, previste due possibili interpretazioni:

1) se non è cosciente allora non può esprimere la sua volontà e questa non si può desumere.

2) Qualcuno può surrogare la volontà del paziente. Si nomina un tutore che deciderà per lui.

Negli ultimi tempi la Corte di Cassazione si è espressa dichiarando poco pratiche le due soluzioni e stabilendo che si può ricostruire la volontà del paziente sulla base di elementi presenti  (es. dichiarazioni scritte).  Si tratta di una decisione equilibrata che rimanda a casi specifici e più complessi, il problema si presenta quando è assolutamente impossibile ricostruire la volontà del malato.

 

Due casi eclatanti si sono verificati negli ultimi anni in Italia che esemplificano pienamente i due aspetti del problema: il caso Piergiorgio Welby e il caso Eluana Englaro.

Welby era affetto da distrofia muscolare, un’incurabile neuropatologia genetica che crea una progressiva atrofia muscolare, immobilizzato a letto e totalmente dipendente dalla moglie e dai medici per mangiare, respirare, vivere poteva, attraverso una lavagnetta e il movimento degli occhi, comunicare il suo pensiero tanto da poter chiedere allo Stato di concedergli di morire attraverso l’ausilio di altre persone. Questo permesso gli fu sempre negato, tanto che il medico anestesista che lo aiutò in questa impresa venne processato per omicidio, ma poi non giudicato colpevole.

Caso molto più particolare e discusso fu quello di Eluana Englaro.  Eluana era una giovane ragazza che, a seguito di un incidente stradale, entrò in un coma irreversibile. Quando i medici comunicarono la terribile notizia ai genitori questi non ebbero dubbi ed espressero la volontà della figlia a non voler “vivere” in quelle condizioni. Anni prima, visitando un amico in ospedale mantenuto in vita artificialmente e spaventata dalle terapie aggressive alle quali era sottoposto, espresse ai genitori la sua convinzione che quella per lei era “non vita” e che non si sarebbe mai e poi mai voluta ritrovare in quelle condizioni. Per i suoi genitori, pertanto, la volontà della figlia era più che chiara. Non è stato così per i tribunali italiani e per parte dell’opinione pubblica, fomentata da una certa politica cieca.

Il tribunale di primo grado nomina un tutore che scelga per Eluana, scelta l’interruzione delle cure i macchinari, però, non vengono staccati. Nel 1999 i genitori ricorrono in appello e il tribunale stabilisce che è poco chiaro dal punto vista giuridico e clinico se l’alimentazione forzata sia o meno l’unica causa del suo mantenimento in vita. I giornali cominciano finalmente ad interessarsi del caso, i tg più importanti ne parlano e la tematica, nel giro di poco, è sulla bocca di ogni italiano. Il ministro della sanità Veronesi crea una commissione di studio “ad hoc”, la quale dichiara che alimentazione e idratazione sono una terapia e che, in quanto tale, non è obbligatorio per il paziente esservi sottoposto.

Ma l’autorizzazione a sospendere le cure non arriva. Arriva, invece, una sentenza della Cassazione la quale dichiara che è necessario un contraddittorio al tutore e invita a nominarne uno.

La vicenda si conclude dopo 15 anni con finalmente l’autorizzazione a staccare i macchinari.

 

In ogni caso, comunque, si parla di pazienti maggiorenni o che sono riconosciuti in grado di esprimere o di aver espresso la propria volontà. Ed ecco che si pone un nuovo problema: è lecito praticare una forma di eutanasia su un minore? In Belgio, pochi mesi fa, è stata approvata proprio una legge in tal senso. Anche su un neonato un genitore può decidere di interrompere le cure se queste lo tengono forzatamente in vita. Una legge contrastante con l’assetto giuridico estremamente avanzato del Belgio, che può ricordare le cosiddette pratiche di eugenetica della Germania nazista. (foto a destra: Il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha recentemente lanciato  un appello alla politica perché affronti il tema dell’eutanasia. ”Il Parlamento non dovrebbe ignorare – ha detto - il problema delle scelte di fine vita ed eludere un sereno e approfondito confronto di idee sulle condizioni estreme di migliaia di malati terminali in Italia”).

 

E’ giusto non dare la possibilità a quel bambino di crescere, conoscere i dolori e i piaceri che la vita gli offrirà anche se per pochi anni o deve prevalere l’idea di risparmiargli tutte le sofferenze e una “non vita” che gli si presenterà davanti fino all’inevitabile morte precoce che lo attende? E se fosse giusto praticare l’eutanasia anche su un bambino di due giorni, non in grado di capire, di decidere, di comprendere coscientemente quanto accade, come possiamo sapere che per quando sarà un po’ più grande, anche se sofferente, la medicina non avrà trovato una cura o, comunque, dei medicinali che ritardano la malattia e rendono la vita dignitosa?

 

Tante domande e dubbi che una legge non potrà mai risolvere, soprattutto nell’ottica della certezza del diritto nella quale si impone l’esistenza di regole chiare e non facilmente inopinabili.

Il Galileo