Lo stipendio dei burosauri

Quale sarà l’impatto del recente provvedimento del

 Governo Renzi di limitare a 240mila euro annui

lo stipendio dei manager statali?

 

di Mario Talli

 

  Com'è noto d'ora in avanti, se nel frattempo non saranno stati escogitati arzigogoli leguleici per mutare gli effetti della legge, l'alta burocrazia statale, parastatale e assimilata dovrà accontentarsi di una retribuzione massima non superiore a quella del Presidente della Repubblica, che è di 240 mila euro l'anno. Gli emolumenti dei big della Pubblica amministrazione continueranno in ogni modo  ad essere di tutto rispetto non soltanto in confronto alle retribuzioni percepite dai gradi inferiori, ma anche in rapporto alle prebende corrisposte ai pari grado di quasi tutte le nazioni europee. Comunque, la riduzione c'è stata ed occorre prenderne atto.

 

      Quel che stupisce è proprio  che la notizia non abbia suscitato a suo tempo la risonanza che era lecito aspettarsi. Giornali e televisione se ne sono occupati, ma non quanto fosse prevedibile e opportuno. Si è parlato delle contorsioni di un certo numero di alti funzionari colpiti dal provvedimento; fu perfino adombrato il tentativo di una manovra ostruzionistica verso un provvedimento finanziario di altra natura del governo Renzi, ma tutto sommato si può tranquillamente affermare che la novità, rispetto alla sua rilevanza, fu assorbita piuttosto rapidamente.

        Se adesso ci torno sopra è perché a mio avviso almeno due sono gli aspetti importanti che meritano di essere sottolineati. Il primo e anche il più ovvio è il passo avanti che in questo modo è stato compiuto verso un più equo e giusto ordinamento retributivo. Anche se le disparità a giudizio di chi scrive restano eccessive, non c'è dubbio che è stato assestato un bel colpo alle retribuzioni degli alti dirigenti  statali, una parte dei quali con il tetto massimo dei 240 mila euro annui si sono visti dimezzare lo stipendio in precedenza percepito. Secondo gli ultimi dati del Tesoro, gli oltre tre milioni di dipendenti della Pubblica amministrazione hanno un reddito medio di circa 23 mila euro l'anno. Dopo la recente sforbiciata del governo alle retribuzioni più alte, la differenza tra queste ultime e quelle medie è di dieci volte. Lo ripeto: secondo me è ancora  eccessiva, pur se sono ovviamente convinto come qualsiasi persona di buon senso, che coloro che lavorano di più e meglio, che svolgono attività di particolare responsabilità e delicatezza abbiano diritto ad un adeguato riconoscimento anche in danaro.

      Il secondo aspetto è forse ancora più importante del primo: l'abbassamento del tetto retributivo colpisce al cuore il fattore principale da cui trae origine la solidarietà di casta che quasi sempre fatalmente si produce tra chi a vario titolo ha più danaro, anche se in proporzioni reciprocamente molto distanti e tra costoro e chi agisce e prospera nelle stanze di un qualunque potere, in primis ovviamente quello politico o parapolitico. In altre parole: la classe egemone ha da sempre avuto estremo bisogno di creare tra se e il resto della popolazione una cortina protettiva che le faccia da supporto e all'occorrenza, specie in occasione delle consultazioni elettorali, da serbatoio di consensi diretti o procurati in vario modo, in particolare mediante una costante e accorta opera di orientamento dell'opinione pubblica. Penso che si spieghino anche così le esagerate retribuzioni milionarie dei manager dell'industria privata, le generose prebende dei livelli immediatamente loro sottostanti e le altrettanto generose remunerazioni di cui hanno sempre goduto gli alti burocrati statali. Al fondo di tutto questo c'è una logica precisa, un vero e proprio sistema, la perpetuazione di un modello di società a comportamenti stagni. 

     Prima ho accennato al delicato e spesso decisivo ruolo esercitato da  tutto ciò che in vario modo può influenzare l'opinione pubblica. Il pensiero corre subito ai giornali e alla tv e di conseguenza verso i giornalisti. Oggi il panorama informativo è diventato estremamente vario, articolato e ricco  di strumenti fino a pochi anni fa neppure immaginabili e la figura del giornalista si è fatta estremamente ibrida e non facilmente distinguibile da altri tipi e soggetti non agevolmente classificabili a causa della loro sostanziale ambiguità, che imperversano sui vari media o agiscono in campi  immediatamente confinanti. Sarà un mio chiodo fisso, una sorta di pregiudizio privo di senso, ma sempre più spesso mi capita di chiedermi che rapporto hanno col giornalismo quei colleghi iscritti all'ordine che come domatori senza livrea cercano di addomesticare in tv il caravan serraglio dei politici, peraltro quasi sempre i soliti, preferibilmente scelti tra i più riottosi ad un dibattito ordinato e civile.

      Credo che non fu dovuto al caso se in passato i giornalisti hanno goduto di stipendi di tutto rispetto. Le proprietà dei giornali, specialmente in Italia di derivazione esclusivamente finanziaria e industriale, avevano il preciso interesse di legare a sé e al sistema di cui erano titolari coloro cui era demandato il compito non solo di informare, ma anche di orientare la pubblica opinione. Oggi anche la situazione economica e normativa dei giornalisti (non quella dei direttori) è cambiata in senso peggiorativo;  solo la fisionomia della proprietà dei media è rimasta la stessa, con l'aggravante scandaloso, in Italia, di magnati della carta stampata e della Tv che al tempo stesso sono stati e continuano ad essere uomini di governo.

       Fino a non molti anni fa, quando ancora il mondo non era attraversato da quel fenomeno cui è  stato dato il nome di globalizzazione con tutti i suoi annessi e connessi, il ceto medio e quello medio alto erano il naturale scudo protettivo dei detentori del potere economico e politico, quasi sempre strettamente intrecciati tra loro. Adesso il ceto medio se non proprio scomparso è in piena crisi e di conseguenza anche questo scudo si è in parte sfilacciato: i super ricchi lo sono diventati ancora di più, hanno visto ingrossarsi enormemente i rispettivi portafogli e contemporaneamente il loro numero si è ristretto. 

       L'aumento delle diseguaglianze sociali è da qualche tempo oggetto di studio da parte di  molti economisti. L'ultimo in ordine di tempo è un giovane studioso francese il cui nome – Thomas Piketty – ha un inconfondibile suono anglosassone. Costui è attualmente bersaglio di una dura polemica da parte della stampa neoliberista, per aver dedicato al tema un poderoso studio  che ha fatto risalire  addirittura alla Rivoluzione francese. Ne ha dato recentemente conto su “Repubblica” Federico Rampini che riassume in questo modo le conclusioni cui è giunto Piketty: “Il capitalismo è stato accompagnato da diseguaglianze estreme dalla Rivoluzione francese fino alla prima guerra mondiale; è seguito un periodo di relativo livellamento dei patrimoni e dei redditi fra le classi sociali nel XX secolo (compreso il trentennio 'glorioso' dopo la seconda guerra mondiale); infine negli ultimi trent'anni le disparità hanno ripreso a salire a livelli estremi. Anche perché un'oligarchia di privilegiati – in particolare i top manager – hanno 'fatto secessione' dal resto della società, conquistandosi il potere di autodeterminare i propri compensi senza alcun nesso con la loro produttività reale. Tesi doppiamente scomoda – sottolinea Rampini – sia perché individua cause precise dietro le diseguaglianze, sia perché dimostra che queste non sono affatto inevitabili.”

      Ma del resto non c'è bisogno di ricorrere all'analisi storica per cercare convalide al potere accattivante del denaro, ce lo dice l'esperienza quotidiana di tutti noi.

Il Galileo