Un ricordo lontano

 

di Giuseppe Prunai

 

 

3 luglio del ’44, giorno della liberazione di Siena. Avevo 8 anni, ma le immagini di quella giornata lo ho stampate indelebili nella mia mente e scorrono come un film. Abitavo in  Camollia, all’incrocio tra via de’ Gazzani e via  Campansi.  Eravamo soli, io e la mamma. Il babbo era internato in un lager in Germania, era un IMI (internato militare italiano) perché si era rifiutato di aderire alla repubblica di Salò. La nonna, paralizzata, l’avevamo parcheggiata al Campansi per essere liberi di muoverci. Trascorrevamo le notti in un ricovero antiaereo di fortuna, una cantina dotata di un tunnel, scavato nel tufo che la collegava alla cantina del palazzo adiacente. Alcuni volenterosi, avevano realizzato anche un rudimentale anticrollo con legname da carpenteria.  Quella notte, i cannoni tacquero e allora pensammo di rientrare in casa.

Verso le 7 fui svegliato da mia madre che da alcune ore, sbirciava dalla finestre, le persiane chiuse, le pendoline appena alzate.  I cannoni degli alleati attestati nella zona del Colle di Malamerenda, sulla via Cassia a sud della città, che da alcuni giorni, scavalcando la città, battevano con i loro obici le strade a nord di Siena, teatro della ritirata dei tedeschi, ora tacevano.  Segno che l’avanzata era cominciata.

Vedemmo una pattuglia di marocchini e di altri soldati che avanzavano circospetti, rasenti i muri delle case, le armi puntate, pronti a fare fuoco. Immagini che ho poi rivisto decine e decine di volte in film di guerra e tutte le volte mi hanno fatto accapponare la pelle, tanto è vivo il ricordo di quelle ore.  Poi la strada rimase deserta. Il silenzio era irreale. Più tardi passarono dei civili armati. Avevano al braccio una fascia tricolore e al collo un fazzoletto rosso: sono partigiani, mi dissero, quelli che i fascisti chiamavano ribelli e banditi. Qualcuno di loro gridava: stanno arrivando gli alleati, Siena è  liberata, aprite le finestre, fuori le bandiere.

Con molta circospezione la gente cominciò ad affacciarsi. Poi cominciarono a sfilare i reparti dei francesi, degli inglesi, degli australiani, e un reparto statunitense. La gente scese in strada e fece ala ai reparti che sfilavano  offrendo ai soldati quel poco che avevano.  Soprattutto vino, che è simbolo di fratellanza e di gratitudine in una terra dove l’antica tradizione agricola è ancora presente.

Fu allora che notai dei giovanotti che scendevano dal Pignattello, una zona popolare incuneata fra due strade borghesi. Quel giorno non faceva molto caldo ed uno di loro aveva una giacca di maglia (negli anni successivi si chiamò cardigan) che gli scendeva fino ai ginocchi sotto il peso di due bombe a mano, una per tasca.  Tutti avevano una pistola infilata nella cintura dei pantaloni.

Si sparse la voce che a Vicobello, alla periferia nord-est della città, uno sparuto gruppo di soldati tedeschi, resisteva ancora e sparava su chiunque si avvicinasse e cercasse di persuaderli che la guerra, per loro, era ormai finita. Occorreva stanarli e costringerli alla resa o, comunque, annientarli.

Sentii uno dei quei tre ragazzi che disse: ci si va noi.

A sera, sapemmo che erano tutti morti. Si chiamavano Piero Cristofani, Giorgio Domenichini, Umberto Grazzini.

(Nelle foto, la lapide ed il cippo che ricordano il sacrificio di questi tre ragazzi. Il tutto è in pessimo stato di conservazione)

Il Galileo