Il Servizio Sanitario Nazionale

ha 40 anni  ma non li dimostra

L'Ospedale egualitario

 

di Mario Talli

 

La prima pagina della Gazzetta Ufficiale conla legge n. 833 del 23 dicembre 1978 con la quale fu istituito il servizio sanitario nazionale

    Quarant'anni fa, esattamente il 23 dicembre 1978, il Parlamento approvò la legge che istituiva il Servizio sanitario nazionale. L'anniversario è stato giustamente ricordato – forse non come avrebbe meritato – il mese scorso. Il provvedimento fu varato da un governo cosiddetto di solidarietà nazionale. Ministro dell Sanità era all'epoca Tina Anselmi, esponente della sinistra democristiana, che in gioventù era stata valorosa staffetta partigiana.

       I legislatori ebbero come punto di riferimento il sistema sanitario britannico, il primo nel mondo ad adottare un sistema universalistico ed egualitario nella somministrazione delle cure mediche. Prima della riforma il sistema era fondamentalmente basato su una serie di enti  mutualistici a seconda delle categorie di lavoro di appartenenza, sul tipo di patologia da curare e sull'ammontare dei contributi versati. Con la riforma trovò piena attuazione il principio secondo cui tutti quanti i cittadini, senza distinzione di censo e di reddito,  avevano diritto alle prestazioni sanitarie. Per la prima volta ricchi, meno ricchi e poveri erano davvero  uguali  al cospetto della più temibile delle avversità, la malattia. Una rivoluzione!

    Semplificando molto il discorso, per dare un'idea sufficientemente chiara del meccanismo che era stato messo in opera basterà dire che con la nuova legge tutte le competenze in materia di sanità erano demandate alle Unità sanitarie locali, le USL: dalla prevenzione alla cura, dall'assistenza ambulatoriale a quell ospedaliera.     

     Oggi il sistema, più volte aggiustato e corretto, è pienamente in funzione. Una classifica internazionale situa l'Italia al secondo posto in Europa e al quarto nel mondo per le cure sanitarie alla popolazione.

    Se il nostro sistema sanitario può essere occasione di giusto orgoglio per i cittadini italiani in generale, è molto di più per chi - come è il caso dell'autore di questo articolo, colpito a tradimento un paio di anni fa da una malattia rara – delle cure sanitarie ha una necessità pressoché continua. Ed è a questo punto che giunge opportuno abbinare, per completare e dare sostanza al discorso generale, una riflessione che scaturisce direttamente dall'esperienza sul campo.

      Quando per la prima volta dovetti rivolgermi all'ospedale sapevo, perché lo avevo letto sui giornali, che  non avrei dovuto pagare alcunché. Ma un conto è saperlo in maniera indiretta, un altro è verificarlo di persona e continuamente, giorno dopo giorno. Per un periodo abbastanza lungo le visite si succedettero agli esami più disparati  e a brevi periodi di degenza senza  che dovessi sborsare una lira. Lo stesso avvenne quando finalmente cominciarono le cure vere e proprie con l'impiego di diversi medicinali, alcuni dei quali, a quanto appresi da un farmacista mio amico, piuttosto costosi. Insomma, per la prima volta constatavo di persona che cosa voleva dire Servizio sanitario nazionale, con una sottolineatura per la parola Servizio.

      Un'altra scoperta del tutto inattesa fu - non so come dire...il clima -  che trovai all'interno dell'ospedale. Fui piuttosto contrariato quando all'arrivo il personale infermieristico  - quasi tutto femminile –  si rivolse a me chiamandomi familiarmente per nome, intendo col nome di battesimo.  Dopo che la malattia si era impossessata del  mio corpo, mi parve che ora si volesse annullare anche la mia identità e coartare il mio spirito. Bastò poco per ricredermi. Quella sensazione era del tutto infondata. Anzi, era vero il contrario: quella impronta confidenziale aveva lo scopo di fare di un ammalato e quindi di un soggetto passivo, un soggetto attivo che interagiva con medici e infermieri  durante  il periodo della cura. Un modo, tra l'altro, per favorirne l'efficacia.  

La tessera sanitaria di cui è dotato ogni cittadino italiano

 

      Ora è più di un anno che frequento ogni mese il Day Hospital di Careggi: circa tre ore di degenza  ogni mese per la somministrazione di un medicinale che forse non guarirà del tutto la mia malattia autoimmune, ma che ha già dimostrato di attenuarne gli effetti. 

      Ho parlato prima di “clima”. Prima d'ora non ero mai stato ricoverato in ospedale e  immaginavo il medesimo come una realtà asettica,se non addirittura ostica. Ancora una volta ho dovuto ricredermi. Ma la cosa che più mi ha colpito  è    la sollecitudine, mi verrebbe quasi  da dire, l'abnegazione, dei medici e degli infermieri. Si osserverà che non può essere che così, dal momento che è in gioco non solo la salute ma addirittura la vita delle persone, tuttavia un impegno analogo di solito non si riscontra  in molte altre attivita lavorative.

     L'altro aspetto che mi ha sorpreso è che almeno il reparto cui è affidata la cura della salute mia e delle altre persone con malattie di tipo analogo,  ossia Medicina interna interdisciplinare, è composto in grande maggioranza da medici  e infermieri donne. Addirittura quasi esclusivamente per quanto riguarda il personale infermieristico.Qualcosa questa particolarità vorrà dire. Fa eccezione la sala di comando, dove i medici maschi prevalgono nettamente. Ora che ci penso anche il medico che per primo diagnosticò la malattia da cui sono affetto è una donna. Ne ho ben presente il nome e il cognome e anche la fisionomia.  

Il Galileo