La politica del buon tempo antico

La stagione dei sindaci rossi

 

di Mario Talli

 

    Come il tempo anche la politica ha le sue stagioni. Periodi che la caratterizzano rispetto ad altri, oggetto di scandaglio ad opera degli storici e dai quali i medesimi traggono spunto per i loro giudizi. Una stagione di cui ormai si è persa la memoria è quella, per quanto riguarda l'Italia, che potremmo chiamare la stagione dei “sindaci rossi”. A riportarla d'attualità, a mio modo di vedere, è la dicotomia tra la qualità di coloro che ne furono allora protagonisti e le evidenti lacune del ceto politico oggi imperante.

     Quella “stagione” si snodò in un periodo abbastanza lungo, grosso modo dagli anni '60 agli anni '80, e si distinse essenzialmente per due caratteristiche: prima di tutto, appunto, la qualità di quei sindaci e delle loro amministrazioni e il ruolo che almeno una parte di essi, in misura maggiore o minore,  assunsero per cercare di fuoriuscire dalle strettoie della politica del tempo, condizionata dalle forti contrapposizioni ideologiche. Poiché parliamo in questo momento dei “sindaci rossi” di alcune grandi città  (ciò non significa che non vi fossero in quello stesso periodo degli ottimi sindaci democristiani o di altri partiti), almeno una parte di essi, senza ricorrere a proclami di sorta, bensì con un'azione sottile e intelligente si adoperarono per disincagliare, almeno in parte, il loro partito, il Pci, dal legame costrittivo con l'Unione Sovietica di Stalin e dai condizionamenti che ne derivavano.

      Chi scrive ha avuto in sorte, grazie soprattutto al suo mestiere di giornalista, di seguire da vicino alcuni di questi sindaci e di soppesarne le iniziative e l'attività. Non posso tuttavia continuare questo discorso senza ricordare il primo “sindaco rosso” con cui venni a contatto negli anni giovanili e precisamente il sindaco del mio piccolo comune in provincia di Firenze. Era il 1946 ed io ero allora impiegato di quel comune. Probabilmente perché i dirigenti locali del Partito comunista volevano rimarcare in questo modo una immediata discontinuità rispetto ad un passato di podestà tutti appartenenti alla classe abbiente di proprietari terrieri, fu eletto sindaco un un uomo di età piuttosto avanzata che per tutta la vita aveva fatto il boscaiolo. Si chiamava Virgilio Posarelli e ricordo tuttora come fosse ieri che per qualche giorno proprio io gli feci fare e rifare un'infinità di volte la propria firma, per “sciogliere” le sue mani indurite e rattrappite dai calli e dall'uso quotidiano dell'accetta. Il sindaco boscaiolo non deluse chi lo aveva  voluto e   coloro che lo avevano votato. Amministrò il Comune con lo stesso criterio con cui disponeva delle sue scarse finanze personali: niente spese facili e conti in ordine. La parsimonia è indubbiamente una virtù, ma in certi contesti può risultare controproducente. Il mio paese, Montaione, aveva subito pochi anni prima molti e gravi danni dal passaggio del fronte e aveva dunque bisogno che si investisse il più possibile nelle opere pubbliche. Per fortuna faceva parte della Giunta comunale un contadino molto sveglio intellettualmente che indusse l'amministrazione comunale a tener conto di questa esigenza prioritaria. Se il sindaco boscaiolo non brillò per fantasia innovativa, al termine del suo mandato lasciò comunque un ottimo ricordo di uomo probo e onesto. Prima di dismettere l'attività di impiegato comunale  per intraprendere quella giornalistica feci in tempo a familiarizzare con uno dei suoi successori. Si chiamava Mario Rossetti, di origini contadine. Egli fu eletto e rieletto per una ventina d'anni. Col sindaco prima ricordato  aveva in comune l'onestà assoluta, ma differiva vistosamente per una non comune capacità  progettuale e spirito di iniziativa.

      Il primo sindaco con cui ebbi a che fare una volta diventato giornalista, si chiamava  Roberto Giovannini (foto a sinistra^ed era sindaco di Prato. Governò la città ininterrottamente per  diciassette anni ed era benvoluto da tutti, anche dagli avversari. La probità costituiva anche  per lui un segno distintivo. Esile di statura, era solito indossare cappelli piuttosto ampi, che contribuivano rimpicciolire la sua persona. Scapolo per vocazione, aveva un'autentica grande passione per il teatro di prosa. Si deve sicuramente a questo suo sentimento  se  dopo anni di tentativi e superando non poche difficoltà di ogni genere, riuscì  a far risorgere, dopo un lungo periodo di abbandono, il Teatro Metastasio. Altro suo merito indiscusso l'attribuzione alla città di Prato del ruolo di Provincia. Quando nel '65 lasciò la carica di sindaco, diventò deputato. Ma credo di poter dire che conservò per tutta la vita un grande rimpianto per l'incarico precedente, esercitato così a lungo con grande dedizione. Come a volte succede, anche in lui si era stabilita una sorta di simbiosi tra il proprio “io” e la  funzione di sindaco. Non avendo moglie e figli, il Comune era diventato un po' la sua famiglia. Nel 1995 pose fine  volontariamente  alla sua vita gettandosi nel vuoto da una finestra della sua abitazione. La solitudine e le malattie  e forse anche i nuovi volti e modalità  della politica lo avevano duramente provato. Mi è rimasto di lui un ricordo tenero e affettuoso.

     Gli succedette Giorgio Vestri, di cui ebbi modo di apprezzare l'intelligenza. Capiva e riusciva a risolvere le situazioni più intricate. Vestri inoltre appariva come se in lui ci fossero due persone in una. Nelle sue funzioni di sindaco era di una severità assoluta, che quasi intimidiva l'interlocutore. Nel privato era invece estremamente socievole e di compagnia, a patto che in tali frangenti non si parlasse degli affari del Comune. Per due o tre anni, in qualche pomeriggio di giorno festivo ho avuto occasione di giocare a ramino e a scala quaranta con lui e con alcuni suoi amici nei locali di una Casa del popolo. 

     Dopo questa lunga parentesi in cui la politica impatta con i sentimenti, ritorno al discorso iniziale: l'esperienza e il significato di quella che ho chiamato la stagione dei “sindaci rossi”.

Intanto converrà ricordare i loro nomi, limitatamente per ovvie ragioni ai primi cittadini di alcune grandi città. Inizierò dal mitico – per le generazioni più anziane – Giuseppe  Dozza, (foto a destra) che fu sindaco di Bologna dal '45 al '66, negli anni in cui quella curia arcivescovile  era retta da una personalità altrettanto rimarchevole, quella del cardinale Giacomo Lercaro (foto a destra). Tra il sindaco comunista e il porporato, dopo iniziali incomprensioni, si stabilì un rapporto che col tempo si trasformò in vera e propria amicizia.  Ma Dozza non fu l'unico sindaco di Bologna degno di nota. I suoi successori Guido Fanti e Renato Zangheri meriterebbero  molto di più di una semplice citazione per l'impegno che misero nello svolgimento dei rispettivi mandati e per i risultati ottenuti. Nel novero ci sarebbe anche Sergio Cofferati, che fu sindaco di Bologna dal 2004 al 2009, ma egli appartenne, appunto,  ad un'altra epoca.

      Roma ebbe almeno due sindaci di assoluto rilievo. Dopo Giulio Carlo Argan, della Sinistra indipendente, storico dell'arte in prestito alla politica che fu sindaco della Capitale dal '76 al '79, si succedettero due sindaci entrambi di grande impatto popolare, Luigi Petroselli (foto a sinistra)  e Ugo Vetere (foto a destra). Un po' di anni dopo al Campidoglio ci fu anche Walter Veltroni, che fu sindaco dal 2001 al 2008, ma per lui vale il discorso fatto per Cofferati.

       Napoli ha avuto due sindaci targati Pci, anch'essi di grande popolarità, nelle persone di Maurizio Valenzi (dal '75 al 1983) e Antonio Bassolino (dicembre '93 – novembre  '97), mentre Diego Novelli fu ottimo e stimato sindaco di Torino per quasi undici anni. Milano, invece, non ebbe mai sindaci comunisti e così Palermo.

         A questo punto il nostro excursus potrebbe dirsi concluso, se non ci fosse un altro caso di un sindaco del Pci di grande personalità e di altrettanto grande popolarità, che mi è capitato di seguire da vicino sempre per il mio essere giornalista. Alludo a Elio Gabbuggiani, sindaco di Firenze dal '75 all'83. Con Gabbuggiani le intenzioni sottintese di disincagliare la politica del Pci dall'abbraccio deleterio con la Russia di Stalin, coltivate anche dagli altri “sindaci rossi” dell'epoca diventano evidenti e quasi esplicite. Degno erede di Mario Fabiani, l'amato Sindaco della Ricostruzione, che non faceva mistero di non considerare l'Unione Sovietica alla stregua di un Paradiso sulla terra (ad alcuni militanti del Pci in lacrime  per la morte di Stalin non si peritò di dire: “Ma di cosa piangete, è morto un tiranno!”), si conquistò ben presto la stima e la considerazione della cittadinanza a prescindere dall'appartenenza politica. Oltre all'operato della sua amministrazione, a questo risultato molto contribuì il suo modo di fare signorile e cortese con tutti: Roberto Gervaso, giornalista di tutt'altra tendenza politica, lo definì  “Lord rosso”.

       Io ho avuto l'opportunità di sperimentare dal  vivo queste sue caratteristiche in occasione di due viaggi che il sindaco Gabbuggiani (foto a sinistra) effettuò negli Stati Uniti e in Cina, a capo di una delegazione rappresentativa di varie “anime” della città. Di questi viaggi feci parte anch'io insieme ad altri colleghi giornalisti. Lo scopo primario era, com'è ovvio, un'ulteriore spinta alla promozione di Firenze nel mondo. Ciò valeva in modo particolare per la Cina che proprio in quegli anni si affacciava sulla scena mondiale come futura grande potenza economica e militare. Di quel viaggio ricordo ancora l'accoglienza sontuosa (non saprei usare un'espressione più adatta) che il governo cinese, evidentemente spinto dagli stessi motivi promozionali del proprio grande Paese, ci riservò. Basti dire che per i trasferimenti della delegazione da una città all'altra: Pechino, Shanghai, Nanchino - città quest'ultima con la quale fu siglato il gemellaggio con Firenze -  e Canton,  ci fu messo a disposizione un aereo di medie dimensioni addobbato come un salotto. Un altro particolare che mi è rimasto impresso e che ricordo tuttora con un sorriso divertito a distanza di tanti anni sono i reciproci ripetuti inchini fra il sindaco e le autorità cinesi al momento dell'incontro e del successivo commiato. Per il Gabbuggiani autentico gentiluomo, dai modi sempre garbati era del tutto naturale prodursi a sua volta in un inchino in risposta agli inchini altrui.   

        Il viaggio negli Stati Uniti aveva gli stessi scopi, ma con l'aggiunta sottintesa e condivisa da alcune autorità di entrambi i paesi, di un'apertura reciproca di rapporti, sia pure per il momento ad un  livello solo comunale,  tra la nazione leader dello schieramento occidendale e un sindaco comunista e in quanto tale presumibilmente tenuto a tener conto delle aspettative dell'Unione Sovietica. Correva l'anno 1977. In quegli anni di guerra fredda tra l'Oriente europeo e l'Occidente, gli Stati Uniti erano territorio inaccessibile per gli iscritti al Partito comunista. La concessione del visto d'ingresso al sindaco Gabbuggiani, al collega dell'”Unità” e a me, giornalista di “Paese Sera” fu oggetto di una trattativa piuttosto lunga tra i ministeri degli Esteri dei rispettivi Paesi, i consolati e le ambasciate. Fu grazie all'Amministrazione Carter che alla fine il blocco si allentò. La delegazione fiorentina fu ospite di diverse città. In una università di  Detroit Gabbuggiani tenne una conferenza, con nostra sorpresa (mia e degli altri colleghi giornalisti) particolarmente apprezzata sul tema dell'Eurocomunismo. Anche la stampa americana, inizialmente ostile, mutò atteggiamento . “La folla saluta il sindaco comunista”, titolò il giorno successivo un giornale cittadino. La visita ebbe un effetto politico quasi immediato: l'invito, di lì a poco, a Giorgio Napolitano, esponente dell'ala “migliorista” del Pci, a tenere un ciclo di conferenze negli USA.         

         Il discorso, piuttosto lungo, potrebbe chiudersi qui. Tuttavia non posso fare a meno di menzionare un altro sindaco assolutamente degno di nota. Si chiamava (è morto nel 2014) Argante Marzocchi, (foto a destra) sindaco per una ventina d'anni di Gambassi Terme, un paese prossimo a quello in cui siamo nati entrambi. Io e Argante siamo stati amici d'infanzia e negli anni giovanili. Tra il '43 e il '44 tutti e due ci demmo da fare nella Resistenza. Da quando Argante era diventato sindaco non ci siamo più visti. Io, ormai, dimoravo a Roma. Ci siamo sentiti solo qualche volta per telefono. Seppi della sua morte qualche anno dopo. (sulla morte di Marzocchi, suggeriamo di leggere l’articolo di Mario Talli http://www.il-galileo.eu/n73/in_memoria_di_un_compagno.html) Alcuni suoi nuovi compaesani mi raccontarono che al funerale era praticamente presente l'intero paese, a dimostrazione della considerazione e dell'affetto da cui era circondato. Tutte cose che non mi hanno sorpreso, conoscendo molto bene il soggetto: idealista e una con una vena di romanticismo, nonché di un'onestà assoluta.

    Anch'ìo, come molti suppongo, sono costernato al cospetto della politica odierna e dei suoi protagonisti. Le storie che ho raccontato, insieme a un sentimento di nostalgia, mi rincuorano tuttavia un po', in quanto dimostrano che la buona politica è esistita e dunque è  possibile che ci sia anche oggi e nel futuro.

Il Galileo