Riflessioni in autoisolamento

La politica nel  mondo interconnesso

 

di Mario Talli

 

 

    Oggi più che mai torniamo a chiederci se esiste sempre e se sussisterà anche in futuro il binomio destra/sinistra. Da quasi un trentennio se n'è discusso molto (uno degli ultimi, da par suo, Norberto Bobbio), molto spesso senza arrivare ad una conclusione.

   A mio modestissimo parere, se si continuerà a parlare di destra e sinistra esclusivamente come categorie politiche, sia pure con varie sfaccettature per l'uno e l'altro dei due termini,  non si arriverà mai da nessuna parte. Perché le due parole in realtà non sono altro che la semplificazione di due modi di vedere le cose, di due concezioni che non riguardano solo la politica, ma che in qualche modo riassumono  due categorie dello spirito o, se si  preferisce, due concezioni diverse dello stare nel mondo: l'una basata su criteri di giustizia e di uguaglianza, l'altra che  ritiene pienamente legittimo il concetto di supremazia, principalmente in campo economico, con le conseguenze che spesso ne derivano nell'ambito dell'organizzazione degli Stati e in quello dei rapporti sociali. Queste due concezioni, sempre procedendo per semplificazioni, forse esisteranno per sempre e, in quanto tali, avranno pieno diritto di esserci, sempre che non contemplino (o facciano da schermo) soluzioni del tipo dei diversi fascismi o del comunismo sovietico e simili.

     

L'odierna realtà politica, sociale e civile in Italia e nel mondo è piuttosto illuminante. Ho parlato prima di semplificazione. Restando sempre in questo ambito credo si possa dire che mai come oggi e particolarmente in questi ultimissimi tempi, dalla capitolazione dell'Urss in poi, nonostante alcune conquiste democratiche,  come, ad esempio, nel cammino non ancora concluso della piena uguaglianza tra uomini e donne, la destra e tutto ciò che s'intende con questa definizione appare indiscutibilmente trionfante.  E la sinistra, al contrario, sembra che si trovi in una  sorta di apnea. Mai come oggi il centrodestra predomina in quasi tutti i paesi e i continenti, con la sola eccezione della Cina, la quale, tuttavia, benché nominalmente erede di un regime comunista, non è sicuramente seconda a nessuno per la potenza e la pervasività del suo sistema di capitalismo monopolistico. 

          Ma non è mia intenzione di procedere ad una approfondita disamina di carattere generale, obiettivo superiore alle mie forze, ma piuttosto di concentrarmi sugli effetti che l'espansione del capitalismo monopolistico ha prodotto nel nostro Paese, sul nostro sistema di relazioni, sulla nostra vita pubblica e privata e infine sulla politica. Anche per la potenza e il grado di penetrazione e di influenza che le più recenti forme di capitalismo monopolistico, quelle attinenti il possesso quasi assoluto, enormemente remunerativo (forse anche per la difficoltà di accertarne gli introiti)  dei moderni sistemi informatici di comunicazione, per lo più in mano a potentissimi gruppi finanziari stranieri. Un tempo il potere economico era in mano a personaggi dai volti conosciuti che preferivano rispondere personalmente del loro operato e non si sottraevano al confronto con le controparti, comprese le rappresentanze dei lavoratori, ossia i sindacati, pur se molto spesso con atteggiamenti di chiusura ad ogni possibilità di intesa. I sindacati, a loro volta, erano costantemente impegnati in un una sorta di confronto quasi quotidiano con i datori di lavoro, non sempre facile, ma reso meno difficoltoso dalla omogeneità delle prestazioni richieste ai lavoratori, solitamente suddivisi in grandi categorie perfettamente classificabili e riconoscibili. Il contrario di quanto accade oggi in una situazione quasi capovolta, nella quale il rapporto di lavoro è enormemente frastagliato: alle categorie omogenee per mansioni e relativo trattamento si stanno sempre più sostituendo prestazioni di tipo articolato e flessibile, magari con il supporto di strumenti informatici,  sia per ciò che attiene la forma pratica e simbologica – il rapporto tra lavoratore e luogo di lavoro – sia riguardo alle connotazioni contrattuali, piuttosto complicate e “spezzettate”.

    A questo mutamento epocale gli imprenditori nostrani hanno cercato di adattarsi e, anche se non è stato sempre facile, credo si possa dire che ci sono riusciti abbastanza bene. La stessa cosa non si può dire per ciò che riguarda i sindacati: la disarticolazione dei tradizionali rapporti di lavoro, la frantumazione del medesimo in una infinità di sotto-categorie, la difficoltà spesso di individuare anche fisicamente la controparte, hanno reso il loro lavoro molto più difficile e complicato.

     Tutto questo ha comportato non solo immediati riflessi, anche economici ma non solo, sul rapporto tra datori di lavoro e prestatori d'opera, annacquando quello che un tempo era definito come scontro di classe, ma si è riverberato, com'era inevitabile, sulla società intera, sui modi di essere e i comportamenti di tutti quanti noi per la mancanza sempre più avvertita di punti fermi cui riferirsi dopo la scomparsa dei “puntelli” ideologici di un tempo con quel che di positivo e di negativo che avevano in sé.

       Il profondo mutamento che è avvenuto ha pressoché lasciato intatto (anche se le forme in alcuni casi sono cambiate) il predominio delle categorie facenti capo all'imprenditoria e alla finanza, lasciando abbastanza “scoperte” quelle sottostanti. E quando uso il termine “predominio” non sottintendo soltanto quello economico, ma vi annetto anche il quasi inevitabile effetto sul modo di pensare e di vivere di tutti quanti noi.    

        L'esempio più probante di quanto sto dicendo l'abbiamo proprio qui, in Italia. Mi riferisco al “fenomeno” Berlusconi, esempio paradigmatico dell'influenza che una determinata “cultura”, intesa come modo di essere e di comportarsi, ha su una società intera. L'ascesa di Berlusconi nel firmamento degli affari e della politica in Italia è avvenuta come tutti sappiamo in epoca diversa da quella attuale, ma gli effetti di questo avvento possono essere ravvisati oggi come non mai. Non è il caso qui di ripercorrere le tappe delle fortune berlusconiane e quel che di poco trasparente  ed eticamente discutibile esse celavano, ma piuttosto di dedicare un po' di attenzione al grado di influenza che il suo impero mediatico – le televisioni e i giornali – esercita sul presente della nostra società.

          Il Berlusconi delle origini aveva già capito, in anticipo su molti altri,  l'importanza del più moderno dei mezzi di informazione, appunto la Tv. Meriterebbero un capitolo a parte le battaglie allora ingaggiate per il possesso di una televisione locale e le graduali conquiste successive, sempre in questo ambito. Per ora è sufficiente notare che in questo momento in Italia l' ”impero” televisivo di Berlusconi è il più consistente, superiore perfino, per numero di reti e di canali, a quello pubblico con cui in un passato ormai lontano ha a lungo duellato.

                 Circa l'influenza che le televisioni berlusconiane esercitano sulla società italiana, credo che ci sia ben poco da dire per quanto attiene l'influenza politica: essa è visibile per chiunque, basta sintonizzarsi con una delle sue Tv. Quella sul costume italico è invece forse meno evidente, più sottintesa, ma a lungo andare probabilmente ancora più incisiva e produttrice di effetti e conseguenze. Basterà citare alcune “perle” delle televisioni berlusconiane per renderci conto del tipo di messaggio che esse introducono nel tessuto più intimo del nostro Paese. Cito per primo “Il Grande fratello”, trasmissione che si è conclusa di recente. Questa volta  agli “onori” degli schermi televisivi c'erano delle persone presentate come significative ed importanti, soltanto perché avevano partecipato con ruoli assolutamente secondari per non dire insignificanti a qualche spettacolo, televisivo o meno, di nessuna portata culturale e tantomeno artistica.

    Le televisioni berlusconiane mostravano pressoché ininterrottamente queste persone trascorrere le loro giornate da nullafacenti, intente a chiacchierare di argomenti futili, consumare i pasti (qualche volta anche preparandoli, ed era  questa l'unica occasione in cui si esibivano in una funzione attiva), sonnecchiare avvolti in pesanti coperte o abbronzarsi esponendosi ai raggi solari. Tutto questo beninteso non era “colpa” (se di colpa, sia pure tra virgolette si può parlare) loro, era il programma a prevedere che questo e solo questo dovessero fare. Intanto le loro immagini  rimbalzavano sui teleschermi domestici e ci saranno stati sicuramente coloro che  queste persone le ammiravano e le invidiavano.                

          Più o meno allo stesso genere appartiene un'altra trasmissione della Tv del “cavaliere”. Mi riferisco a “Uomini e Donne”, in onda ormai da moltissimi anni, dove appunto persone di entrambi i sessi sono chiamate a dichiarare in pubblico, alle persone oggetto del loro interesse, i propri sentimenti, veri o presunti che siano. Ma i propri sentimenti veri o presunti che siano. Ma io non posso prolungarmi nella  descrizione perché (contravvenendo al dovere più elementare, di un giornalista, quello di documentarsi) proprio non ce la fo a sorbirmi, anche solo per poco, quel tipo di spettacolo. Credo comunque di poter dire che si tratta della banalizzazione  di sentimenti  autentici come l'amore, il desiderio, l'intenzione di trovare un compagno o una compagna con cui condividere l'esistenza.             

            L'ultimo esempio che voglio citare è “Forum”, che a volte invece guardo e ascolto perché fin da quando cominciai a fare il giornalista i processi mi hanno sempre interessato e incuriosito e perché ci sono dei bravi giuristi nelle vesti di giudici giudicanti. I quali però, con loro evidente disappunto, sono costretti a subire le chiassose e insopportabili intemperanze degli imputati e dei loro accusatori,  propagando un'idea delle aule dove si amministra la giustizia e dei modi in cui si esercita, oltre che falsa, certamente non gratificante. Il tutto sotto lo sguardo impassibile di una signora con gli stivali, presente mattina, pomeriggio e sera   negli studi del cosiddetto Biscione.

     Tutti i linguaggi e quello televisivo in particolare conservano in sé due modalità espressive: una è diretta e l'altra  figurata e subliminale. Il secondo di questi linguaggi alla lunga è quello che ha più efficacia e perciò produttivo di maggiori effetti e conseguenze in senso positivo o negativo. Tutto dipende, come è ovvio, dal tipo di messaggio che si vuole trasmettere, anche se non sono da escludere effetti imprevisti. Facciamo l'esempio di una trasmissione come “Il Grande fratello”. A prescindere dalle intenzioni di chi l'ha ideata, un messaggio subliminale che essa immediatamente trasmette è che quel che conta nella vita è essere in possesso di una bella presenza e di un fisico adeguato. Tutto il resto, magari discutere di temi importanti e di qualche interesse  passa in secondo piano, quel che soprattutto importa per attirare l'attenzione degli amanti del genere è il cazzeggio.   

 

Nelle foto, dall'alto verso il basso, l'arco costituzionale dei primi anni della Repubblica Italiana. Questi i leader dalla sinistra alla destra: Ferruccio Parri, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Alcide De Gasperi, Giovanni Malagodi.

Il Galileo