Anche i giornali hanno un’anima

Le confessioni di un giornalista d’annata sembrano dirci che i quotidiani hanno un odore, un sapore, un colore….

 

di Mario Talli

 

La testata de "Il nuovo corriere", il quotidiano fiorentinmo, diretto dallo scrittore Romano Bilenchi, nel quale il nostro collaboratore Mario Talli mosse i primi passi nel giornalismo

    Anche i giornali hanno un'anima. Hanno anche una fisionomia più o meno precisa, un colore, un linguaggio. Ma il tratto saliente è, appunto, l'anima, cioè quell'insieme di segni e caratteristiche che non si vedono e che sono perfino difficili da individuare  ma che il lettore, specie se abitudinario,  “sente”, percepisce  come a lui vicine oppure inesorabilmente  distanti.

     Chi scrive è un giornalista,  ma non è necessaria questa qualifica per intercettare l' ”anima” di un giornale. E' una possibilità che hanno tutti e che tutti esercitano, consapevolmente o meno. Io l'ho scoperto quando ancora non ero giornalista, ma stavo per diventarlo, ossia mi muovevo in quella zona vaga e incerta in cui si muove una persona in procinto di intraprendere  un qualsiasi lavoro. In poche parole la mia situazione era questa. Da alcuni anni ero impiegato presso il comune del mio paese di nascita, ma quel tipo di lavoro ripetitivo e sedentario non mi soddisfaceva. Questo era spesso oggetto di conversazione con un mio amico anche lui scontento del proprio lavoro di insegnante di scuola media. Eravamo entrambi giovani e quindi con tutto il futuro davanti a noi. A un dato momento e inaspettatamente il mio amico mi informò che stava per cambiare lavoro: dalla scuola sarebbe passato al giornalismo.

      Cosa che infatti di lì a poco avvenne. E da quel momento ci perdemmo di vista. Io continuai nel mio lavoro ancora per un anno. Cioè fino a quando non decisi di lasciare il ruolo di impiegato (traguardo assai ambito, specie in un paese di campagna come il mio), nonostante in quel momento non avessi in mano alcuna alternativa. Com'era inevitabile restai un bel po' di tempo senza più avere né arte né parte, come si usa dire. Circa un anno e mezzo dopo a Firenze dove avevo cominciato ad esercitare alcuni lavori raccogliticci e marginali, incontrai il mio amico diventato giornalista, con il quale non ci eravamo più visti o sentiti. Naturalmente lo informai della mia situazione e una settimana dopo mi telefonò chiedendomi se me la sentivo di intraprendere la sua stessa strada, quella del giornalismo. Ovviamente risposi subito di si, anche perché a quella eventualità avevo qualche volta pensato, sebbene in modo vago e come un obbiettivo quasi impossibile da raggiungere. Invece trascorse ancora qualche giorno e il mio amico mi chiamò di nuovo per dirmi che l'indomani avrei dovuto presentarmi alla sede del giornale per un colloquio col responsabile delle pagine provinciali. Cosa che feci e mi fu comunicato che mi avrebbero assunto per un periodo di prova e che avevano intenzione di destinarmi alla redazione di Empoli. Da allora in poi tutto si svolse rapidamente. Fui chiamato dal direttore amministrativo che mi comunicò l'ammontare dello stipendio di partenza (70 mila lire mensili, circa il doppio della paga di un operaio, superiore anche alla mia precedente retribuzione di impiegato comunale)  e che avrei dovuto prendere servizio il lunedì della settimana successiva.

    A questo punto devo dare al lettore una informazione che ha la sua importanza. Da diverso tempo, sia prima che dopo aver lasciato il lavoro di impiegato comunale, avevo cominciato a scrivere. Scrivevo racconti che tenevo per me e resoconti di gare ciclistiche - sport che mi appassionava - che si svolgevano nella mia zona. Questi ultimi comparivano regolarmente o nelle cronache provinciali di un giornale sportivo oppure nelle cronache locali del quotidiano Il Nuovo Corriere, che era anche il mio giornale, cioè il giornale che non solo leggevo quotidianamente ma con il quale mi identificavo sia dal punto di vista politico che culturale. (Nella foto sopra: Romano Bilenchi)

     Mi ci identificavo a tal punto che a un dato momento mi feci coraggio e inviai al giornale due miei racconti abbastanza diversi come stile e contenuto. Il mio scopo primario non era tanto la pubblicazione, quanto piuttosto allacciare un rapporto con il direttore del giornale, lo scrittore Romano Bilenchi (di cui non solo  conoscevo e apprezzavo l'opera ma anche l'attenzione con cui guardava ad eventuali futuri nuovi narratori) per avere da lui, oltre al giudizio, anche un'indicazione di marcia riguardo allo stile e ai contenuti. Uno dei due racconti, il più lungo, era quello che sentivo più vicino alle mie corde e in qualche modo richiamava i caratteri distesi e introspettivi della letteratura bilenchiana e di altri autori toscani in auge nei primi decenni del Novecento. L'altro invece aveva un  andamento più nervoso, di timbro vittoriniano  - Vittorini e Bilenchi erano amici. Politicamente affini (erano entrambi iscritti al Pci) e attivi nel dibattito culturale, come scrittori invece divergevano riguardo alle tematiche e allo stile narrativo. Bilenchi, come ho accennato prima,  apparteneva a buon diritto alla letteratura italiana degli anni '30 e '40 del '900, Vittorini invece era uno scrittore inquieto, con una certa attrazione per la letteratura americana e alla continua ricerca di nuovi linguaggi e contenuti. 

    Inaspettatamente, una quindicina di giorni dopo uno dei due racconti e proprio quello più lungo a cui tenevo di più e col quale più mi identificavo fece la sua comparsa sulla prestigiosa Terza Pagina del Nuovo Corriere. Quella pubblicazione era la prova di un riconoscimento autorevole e impensato e mi permise di avvicinare Bilenchi a cui mi rivolsi per dirgli che ero stato assunto dal giornale concorrente ma che avrei preferito lavorare al Nuovo Corriere. Cosa che infatti avvenne, anche se con una retribuzione di gran lunga minore e con scarse garanzie di durata. Infatti il giornale chiuse appena due anni dopo il mio arrivo, mentre La Nazione, il giornale che avevo rifiutato, vive tuttora. (Nella foto a destra, Elio Vittorini)     

       L'ingresso nel giornale non mi aveva deluso, anzi mi ero trovato subito a  mio agio. Benché  sostenuto finanziariamente dal Pci,  Il Nuovo Corriere aveva saputo trovare uno spazio proprio e perfettamente riconoscibile che lo collocava tra il Pci e le altre forze della sinistra allora presenti: il Psi, il Partito d'Azione e la sinistra cattolica della quale il sindaco  Giorgio La Pira era una testimonianza significativa. Anche il linguaggio, che d'altronde come lettore ben conoscevo, era di mio gradimento. Un linguaggio piano, discorsivo, il più adatto ad un confronto proficuo e civile, del tutto esente dai giudizi sprezzanti e categorici. Il criterio di fondo, non dichiarato ma sottinteso e da tutti condiviso, era che non possedevamo la verità ma dovevamo cercare di avvicinarvici il più possibile.

    La chiusura del giornale suscitò grande dispiacere tra i suoi numerosi e affezionati lettori, molti dei quali trovarono mille modi per esprimere il loro rammarico, insieme alla speranza di un ripensamento. Per noi che ci lavoravamo il dispiacere fu ancora maggiore. Per fortuna quasi tutti trovammo rapidamente una nuova sistemazione. Io fui assunto all' Unità. Nonostante fosse l'organo del Pci, nel mio lavoro continuai ad usare i parametri che avevo appreso da Bilenchi. Grande spazio era dedicato ai temi dell'economia e del lavoro, dell'occupazione e del sindacato. Su tali questioni il giornale era una specie di controparte permanente  rispetto al padronato. Anche riguardo alla politica il binario era sostanzialmente unico, rappresentato dalla linea del partito  e quello dovevamo percorrere: deviazioni da quel tracciato non erano né previste né consentite. 

    La mia tappa successiva fu Paese Sera, giornale anch'esso gravitante nell'orbita del Partito comunista ma che nel corso del tempo era riuscito a conquistare una discreta autonomia. Lì un cambiamento  vi fu e sostanziale, sia nell'approccio alla notizia che nel linguaggio perché un giornale del pomeriggio ha delle logiche e dei  tempi del tutto differenti rispetto ai confratelli del mattino e tutta la loro impostazione ne deve per forza risentire. Quando anche Paese Sera cessò le pubblicazioni avevo ormai l'età della pensione. Ma la prospettiva del nullafacente non mi entusiasmava ed accettai una proposta di collaborazione giuntami da La Repubblica. Nonostante anche questo giornale gravitasse a suo modo in un'orbita progressista  ebbi qualche problema di adattamento. Perché, come accennavo all'inizio, ogni giornale, anche a prescindere dalla connotazione politica, ha quasi sempre un linguaggio proprio  che lo distingue dagli altri.

La macchina per scrivere Olivetti M20. Una generazione di giornalisti si è rotta i polsi e la schiena per pestare sui suoi tasti,  estremamente duri

 

     Rispetto ai miei tempi la situazione della stampa in Italia e nel mondo è cambiata  radicalmente. Molti giornali sono morti, altri sono nati. Ma è mutato, come tutti sappiamo, l'intero mondo dell'informazione con la comparsa di nuovi mezzi e strumenti. Quello che non è cambiato è il predominio esercitato su di essi dal capitale  finanziario e dalla grande industria, che li usano quasi sempre sopratutto nel proprio esclusivo interesse.         

      Anche Il Corriere della Sera, storicamente non molto distante dagli ambienti prima menzionati, sta riguadagnando lentamente ma inesorabilmente la supremazia di un tempo. In certi giorni acquistare il Corriere vuol dire portare a casa più di un chilo di carta tra supplementi, inserti e pubblicazioni varie.

Il Galileo