La banalità del male

dal processo ad Eichmann alla guerra russo-ucraina

 

di Magali Prunai

“Eichmann a Gerusalemme: rapporto sulla banalità del male”, noto più semplicemente come “la banalità del male”, è un saggio scritto da Hannah Arendt, politologa, filosofa e storica tedesca naturalizzata statunitense, nel 1963. Scritto mentre seguiva come inviata il processo ad Eichmann a Gerusalemme, analizza l’operato dello stesso Eichmann e dei nazisti in generale giungendo, però, a delle conclusioni inaspettate che provocarono parecchi dissensi e malumori.

La Arendt, e per questo fu fortemente criticata, arriva alla conclusione che non c’è mai stata una vera ragione per la quale degli uomini, anche intelligenti, arrivarono a pensare allo sterminio di persone e che chi, meno potente, colto e intelligente, approvava tali metodi non era semplicemente abbindolato e impaurito dalla forza e potenza dei capi. Eichmann era perfettamente normale, e questo fu stabilito dallo stesso processo. Eichmann non era un folle. Il suo modo di parlare, il modo in cui esprimeva le sue idee era normale, quello che potrebbe avere chiunque di noi. Quello che traspare fin da subito, dai resoconti degli interrogatori e che anche l’autrice evidenzia, è che era un uomo privo di idee proprie. Totalmente incapace di ragionare su quanto accadeva e se le sue azioni e quelle del suo paese fossero giuste o sbagliate. Lui era interessato solo al suo lavoro, a farlo bene, a fare carriera e diventare qualcuno. A quel punto per lui, come per molti, un numero o un nome erano la stessa cosa. Lui organizzava i programmi di sterminio, ma in realtà metteva tanti numeretti in colonna su un foglio. “Non era stupido: era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo”.

Hannah Arendt, nata in Germania nel 1906, si vide ritirata la cittadinanza nel 1937 poiché di religione ebraica. Scappata prima a Parigi e poi negli Stati Uniti dopo l’invasione nazista della Francia, rimase apolide fino al 1951, anno nel quale divenne cittadina statunitense. Giornalista e docente universitaria, pubblicò numerosi saggi. Il più famoso, appena citato, non fu compreso. La critica e l’opinione pubblica lo interpretarono come una difesa del nazismo, accusandola di rinnegare le stesse ragioni per le quali era dovuta fuggire. Morta nel 1975 per attacco cardiaco, dobbiamo aspettare il 1985 perché le sue tesi venissero riabilitate grazie a un ciclo di conferenze organizzate a Parigi dalla filosofa e saggista belga Françoise Collin. Finalmente, dieci anni dopo la sua morte e a più di 20 anni dalla pubblicazione del suo saggio, si iniziò a dare una nuova interpretazione del pensiero arendtiano.

Ma pensando alla quotidianeità degli ultimi anni, soprattutto degli ultimi tempi, il saggio della Arendt è più che mai attuale. I protagonisti della sua opera non sarebbero più i nazisti che sterminavano ebrei, zingari e chiunque non fosse gradito al regime, ma tutte quelle persone protagoniste della cronache nera, che perpetrano male senza pensarci perché non credono sia poi così sbagliato, perché vivono in una realtà alterata, perché si voltano dall’altra parte quando succede qualcosa e intervenire richiederebbe un dispendio di energie troppo elevato. “Semplicemente”, e lo scrivo volutamente fra virgolette, non pensano, ma non solo perché non hanno voglia ma perché è più semplice lasciare ad altri il compito.

Mentre scrivevo queste riflessioni, e pensavo alla cecità dell’uomo moderno davanti alle stragi in mare o a tutte quelle guerre e guerriglie e atti di terrorismo che dominano il mondo da tempo ormai immemore, è scoppiata un’altra guerra. Tra il clamore popolare e un’alzata di scudi vari, i commenti sulla sanità mentale di chi ha messo in piedi quella che rischia di diventare a tutti gli effetti una terza guerra mondiale mi hanno riportato alla mente il giudizio su Eichmann. Non è necessario essere pazzi per decidere di mandare a morte migliaia di persone.

Basta essersi abituati e qualsiasi cosa, anche la peggiore, diventa normalità.

Ma senza scomodare una situazione così delicata, potrei citare mille esempi di persone normali, come me o chi legge in questo momento, che ormai viziata dalla cultura del tutto e subito, ha “perso la pazienza”, compiendo stragi familiari in risposta a un rifiuto, davanti a un capriccio non assecondato.

E questa pare essere la società 2.0, quella del futuro che deve salvare il mondo dalla povertà, dall’emergenza climatica ma che è diversa dalla precedente solo nell’accesso alla tecnologia. 

Il male è banale, perché chi lo commette non pensa neanche se sia giusto o sbagliato. Se si fermasse a pensare non compirebbe gesti tanto atroci. La società odierna è di nuovo senza idee, si è abituata a lasciare ad altri il compito di ragionare per lei e la vita della maggior parte di noi ormai altro non è che una perenne attesa che qualcosa accada senza mai realmente impegnarsi.

E ciò che aggrava la situazione è che, oltre a non avere idee, l’uomo moderno è convinto di conoscere tutte le verità del mondo, portando avanti teorie inverosimili e improbabili.

Il Galileo