Ricordi lontani

La scuola fuori dai banchi

Analogie fra la scuola in tempo

 di guerra e quella al tempo del coronavirus

 

di Giuseppe Prunai

Com’è la scuola fuori dai banchi? Nel mio caso, com’era? La domanda sorge spontanea dopo aver letto la riflessione di Magali Prunai (www.il-galileo.eu/n85/Magali.html)  e spinge a frugare nei meandri della memoria da cui escono ricordi lontani e veri e propri film di avvenimenti, non sempre lieti, che uno aveva sepolto in fondo al cervello sperando di dimenticarli.

Dalla scatola (ovviamente, cranica) esce il primo filmato con un simpatico professore di filosofia che noi studenti chiamavamo “pisellino” perché aveva la testa molto piccola su un corpo estremamente smilzo. Lo scenario è quello del Prato di Sant’Agostino, antistante l’edificio del liceo classico di Siena, dove risiedevo allora. Quel prof. faceva lezione fuori della classe passeggiando per il prato il che ci aveva fatto meritare l’appellativo di “peripatetici” da parte degli studenti delle altre sezioni che dovevano studiare in classe, seduti su quegli scomodi banchi con la seduta fissa. Un appellativo del quale noi maschietti eravamo fieri. Non lo erano altrettanto le ragazze!

A parte questi ricordi scherzosi, l’attuale situazione di isolamento in casa propria, il lavoro a distanza tramite le tecnologie informatiche e, soprattutto, la scuola a distanza con studenti e docenti collegati via Skype o con programmi simili, evoca ricordi ancor più lontani, legati alla mia frequenza scolastica durante la seconda guerra mondiale.

Non ho mai fatto un mistero della mia età. Sono nato nel 1936 e quando fui iscritto alla prima elementare, all’età di 6 anni, eravamo nel 1942, secondo anno di quella guerra disastrosa, persa ancor prima di cominciarla.

Questa foto fu  scattata il 22 marzo 1944 durante un allarme aereo. Siamo di fronte all’ingresso di un piccolo ricovero antiaereo nei sotterranei della Fortezza Medicea di Siena, adibito a posto di soccorso della Pubblica Assistenza. Il bambino in primo piano, con il cappello in testa, è l’autore di questo articolo, all’età di 8 anni. Gli altri sono medici e infermieri della Società di mutuo soccorso più due laici: mio nonno, amministratore della società, ed un colonnello dei Carabinieri che si adoperava per favorire l’istituzione, bistrattata dalle autorità repubblichine perché giustamente sospettata di socialismo.

Il primo anno di scuola si svolse più o meno regolarmente a parte qualche allarme aereo che ci costrinse a scendere precipitosamente nel più vicino ricovero antiaereo. Suppongo che si sia trattato di esercitazioni, tanto per abituarci a raccogliere in fretta le nostre cose e a scappare. Dopo il primo allarme, tutti presero la cosa come un’isperata ricreazione. Chi vuoi che venga a bombardare Siena? si sentiva ripetere. Non ci sono industrie, non ci sono grossi presidi militari né depositi di armi o munizioni, è solo una città d’arte. Ma ben presto gli Alleati scoprirono che Siena era un nodo ferroviario, sì secondario, ma di una certa importanza. Nel tratto di ferrovia Firenze-Roma, tra Empoli e Chiusi, passando per Siena, c’è una ferrovia parallela. Da Siena, poi, partivano due tratte ferroviarie, una statale e l’altra privata, che la collegavano a Grosseto. Per queste ferrovie secondarie, soprattutto nelle ore notturne, transitavano numerosi convogli, carichi di materiale militare, diretti a sud. Fatta la scoperta, cominciarono subito le incursioni aeree. Il primo bombardamento è  del gennaio 1943. La stazione di Siena è situata in una vallata fra due colline e, con  i rudimentali sistemi di puntamento in uso allora sui velivoli, era difficile centrarla e le bombe cadevano tutto intorno. Ne fece le spese il quartiere residenziale fuori della Porta Camollia, dove crollarono numerosi palazzi e vi furono numerosi morti e feriti, e la collina dove sorgeva la Basilica dell’Osservanza, che fu gravemente danneggiata con la distruzione di alcuni affreschi e il danneggiamento di altre opere d’arte. Fra l’altro, andò in pezzi una Madonna di Luca della Robbia. Dopo la guerra fu restaurata rimettendone insieme i pezzi ma non se ne trovò più la testa che fu realizzata, seguendo le foto, da un ceramista. Ma la testa, che avrebbe dovuto essere di color bianco brillante, ingiallì nel giro di pochi mesi mentre il resto della statua conservò i colori originali. I colori  brillanti, inalterabili nel tempo, erano la principale caratteristica delle opere dei Della Robbia che sottoponevano i loro manufatti ad un processo di vetrificazione che non rivelarono mai e che è ancora oggi sconosciuto.

Il primo bombardamento di Siena fu del gennaio 1943 e molti altri ne seguirono. Eravamo diventati bravissimi nello scappare nel ricovero. Non sempre agli allarmi seguiva un bombardamento, spesso si trattava solo di un mitragliamento e di uno spezzonamento. Gli spezzoni erano delle piccole bombe del peso di poco più di 5 Kg. Erano di due nature: dirompenti e incendiari e la loro esplosione faceva un discreto frastuono creando il panico nella popolazione e lanciavano attorno un numero elevato di schegge. Apro una parentesi: a Siena, nella Piazza del Duomo, sul lastricato dinanzi al “Facciatone” c’è una decina di “toppe” di travertino che contrastano con  il resto della pavimentazione in pietra serena. Furono messe lì per chiudere le buche provocate dagli spezzoni lanciati da un aereo sconosciuto nel periodo che precedette  la liberazione della città rimasta per tre giorni terra di nessuno. L’aereo che spezzonava, un monomotore poco più che una “cicogna”, cioè un motoaliante, era stato soprannominato “la vedova” e si diceva che lo pilotasse un colonnello pilota repubblichino, originario del Senese. Quando mossi i primi passi nel giornalismo, mi capitò di intervistarlo: non smentì né confermò di essere “la vedova”.

Il 1943 fu l’anno orribile, soprattutto dopo l’8 settembre quando le scuole furono requisite per alloggiare le truppe tedesche e repubblichine. Dovevamo fare i doppi turni: una settimana le lezioni si svolgevano di mattina, la settimana dopo di pomeriggio. Cominciarono ad arrivare notizie luttuose: molti miei compagni di classe avevano perduto il padre in guerra, oppure  era stato ferito e giaceva  in chissà quale ospedale militare. Chi, come me, aveva il padre richiamato alle armi non trascorreva dei giorni propriamente sereni. La maestra - ricordo che si chiamava Agnese – cercava di sollevare il morale della classe e cominciò a farci lezione nel ricovero antiaereo dove passavamo molte ore. Quando uscivamo ci imbattevamo spesso in persone tutte insanguinate, ferite dalle schegge, se non addirittura in dei morti. Io stesso sono scampato ad un mitragliamento gettandomi a terra sotto un albero mentre una scheggia si conficcò nel terreno a pochi centimetri dalla mia testa.

Poi, grazie ad alcuni volenterosi, la classe poté usufruire di un locale del dopolavoro dei postelegrafonici ospitato in locali della società di mutuo soccorso “Pubblica Assistenza” di cui il mio nonno materno era l’amministratore. Su una parete c’era dipinto lo stemma della società ed il suo motto: “Non meritò di nascere chi visse solo per sé”. Più tardi, quando alla “Pubblica assistenza” frequentai un corso di primo soccorso, imparai anche l’inno della società. Cominciava con questo verso: “La  nostra bandiera è simbolo di pace”: un incipit che sembra quello di un canto anarchico.

E’ stata questa la scuola frequentata dalla mia generazione. Una scuola di sopravvivenza fisica e spirituale per la nostra infanzia rubata, per la nostra infanzia da adulti, di ragazzi cresciuti in fretta fra paure ed angosce. Una scuola fuori dai banchi che ci ha induriti, ci ha mitridatizzati contro le emergenze che capitano nella vita, contro la roboante retorica del patriottismo di facciata, ma che non ci ha tolto i sentimenti come l’amore e l’amicizia.

Ho ricordato prima che la mia maestra di prima, seconda e terza elementare (il biennio fu trasformato in triennio perché nessuno aveva fatto la seconda in modo adeguato) si chiamava Agnese e abitava a poca distanza da casa mia. Il suo onomastico era il 21 gennaio e io le portavo le prime violette e ho continuato a portargliele anche quando facevo il liceo. Andavo  a casa sua e lei si informava dei miei studi e mi spronava a far bene e meglio, poi mi offriva un’aranciata e ci davamo appuntamento per l’anno seguente. Un 21 gennaio andai a trovarla come sempre, ma sulla porta del suo appartamento c’era un altro nome. Mi dissero che non c’era più.

Il Galileo